Bello andare in vacanza, ma per farlo non è sufficiente spostarsi dalla propria casa verso un luogo gradevole. Bisogna mandare in vacanza anche il cervello, le proprie abitudini consolidate, i propri tic o “vizi”. Molti non sono capaci di farlo, il vicequestore Gigi Bertè, protagonista del romanzo, è tra questi. E quando dalla Liguria, dove vive e lavora, insieme alla sua bella e saggia compagna Marzia va a trascorrere qualche giorno a Montenorbo, amena località della Val Camonica, invece di affidarsi a scarponi e alpenstock per salutari passeggiate, si ritrova sprofondato in un cold case con i fiocchi, perché a giacere sotto la spessa patina di decenni non c’è solo una morte sospetta, ce ne sono quattro (forse cinque; o magari sei?), tutte rubricate ufficialmente come incidenti. Peraltro questi casi a ben vedere non sono tanto cold. A tenerli ben warm sono i sospetti o i rimorsi che ancora ossessionano più di un abitante della tranquilla Montenorbo. Tra di essi c’è il dottor Bonardi che, conoscendo la fama di Berté, lo prega di dedicare il suo talento investigativo a quella strana catena di decessi che decenni prima ha funestato la valle.
Ecco quindi il nostro eroe, all’inizio controvoglia poi sempre più attratto dal mistero, addentrarsi in una remota, fosca vicenda. Nei lontani anni ‘70 una lieta brigata di giovani del posto, della quale Bonardi era parte, viene falcidiata da una serie di lutti: per prima una giovane ragazza, Celeste, precipita in un crepaccio durante un’escursione; poi tre figli della famiglia Griffi, la più ricca e potente del paese, muoiono uno dopo l’altro tragicamente. Ma andando indietro nel tempo, anche la morte in giovanissima età della loro mamma, era apparsa a molti assai sospetta. Del tutto naturale la successiva morte del loro padre, il grande imprenditore Umberto: meno naturale invece la morte dell’ex sindaco di Montenorbo, ucciso anni prima proprio da Umberto in un incidente di caccia. Della facoltosa famiglia Griffi resta in vita ormai solo Fausto, che trascorre i suoi giorni solitario nell’antica dimora di famiglia, nella quale – si dice – continua a cercare, senza fortuna, un preziosissimo disegno di Leonardo che vi sarebbe nascosto. Bertè inizia il suo lavoro ascoltando in successione i superstiti membri della sfortunata comitiva, ora anziani e affermati membri della buona società di Montenorbo: una volitiva psichiatra ex sessantottina, un compassato medico, un disilluso farmacista; ma casualmente incontrerà anche Felicita, strana maga barbona che parla coi morti e sa, o sembra sapere, tutto. Gigi Berté, assistito dal buon senso della sua cara Marzia, con calma e discrezione riuscirà a portare in superficie le molte, troppe verità incofessabili e inconfessate sepolte da decenni in una Montenorbo che non ti aspetti.
Il paese mormora è il nono romanzo della saga che vede protagonista Gigi Berté, firmata col nickname Emilio Martini, dietro il quale si nascondono, in verità poco, le sorelle milanesi Elena e Michela Martignoni che, oltre a questi incantevoli gialli, hanno al loro attivo pregevolissimi romanzi storici di ambientazione rinascimentale, incentrati soprattutto sulla famiglia Borgia, “Autunno rosso porpora”, “Il duca che non sapeva amare” e altri. Questo nuovo “Berté”, che come i precedenti ha la capacità di tirarci subito dentro la storia, è stato presentato nella sua fase di lancio – è in libreria dal 17 febbraio – come un giallo di impostazione classica, d’atmosfera, un po’ sulle orme della Christie; ed è vero. L’ambiente raccolto, i personaggi tutti “per bene”, il gioco di specchi psicologico condotto su di loro, evocano la grande signora britannica. Ma noi crediamo di poter accostare questo racconto ancor di più ai Maigret di Simenon. Come il suo collega parigino, il nostro vicequestore compie una full immersion nell’ambiente che lo circonda, ne assorbe umori, fluidi, paure. La sua capacità analitica spoglia gli interlocutori di ogni loro sovrastruttura, scende nelle loro anime, li denuda. Ed è la fine arte narrativa di Elena e Michela che ci permette di apprezzare in pieno l’abilità dell’indagatore, evidenziando in corsivo suoi pensieri o intuizioni mentre interroga, senza dare minimamente l’impressione di farlo, i propri interlocutori. E in questo non c’è Poirot, non c’è Maigret, ma solo Bertè. Perché alla fine le Martignoni sono le Martignoni, punto e a capo. E per fortuna.