Sangue e lacrime. Violenza e caos. Amore e odio. Su queste pietre era stato edificato il Sud. Su tali fondamenta poggiava Charon.
Nel viaggio che faremo nell’immaginaria Contea di Charon in Virginia, il nostro Caronte (per l’appunto) sarà lo sceriffo Titus Crown, il protagonista del thriller dello scrittore americano S. A. Cosby, che con Il Sangue dei peccatori (Rizzoli) si conferma un autentico fuoriclasse. Volutamente non racconterò quasi nulla della trama per permettervi di gustare tutti i colpi di scena dell’intricata indagine, che merita un bel tambler di Jameson.
L’ondata di studenti e insegnanti lambì i fianchi della sua auto e proseguì, come un fiume che lambisce e supera una roccia. I loro volti erano acqueforti degne di un dipinto di Francis Bacon, adombrati da un ricordo che a distanza di dieci anni li avrebbe ancora fatti scoppiare a piangere a una festa di battesimo, nel bel mezzo del supermercato, dopo aver visto la pubblicità di una cyclette.
Lo sceriffo Titus Crown, ex agente FBI e primo sceriffo nero di Charon, si è precipitato nella high school della sua città, dove è in corso una sparatoria. Ѐ caos. Titus e i suoi uomini, entrano per intervenire e individuano subito l’aggressore. Si tratta di Latrell Macdonald, il figlio di un suo ex compagno di liceo, che ha appena ucciso a fucilate l’amatissimo professor Spearman. Titus cerca di far gettare l’arma a Latrell che, tutt’altro che calmo, si agita, grida di guardare nel telefono del professore e non collabora con la polizia rendendo la situazione ancor più tesa. All’ennesimo gesto inconsulto, uno degli uomini dello sceriffo spara e uccide il ragazzo sulle scale della scuola.
Se impugni un’ascia, abbatterai un albero. Se imbracci un’arma da fuoco, che tu abbia una stella sul petto o no, prima o poi abbatterai un uomo. L’eventualità c’era sempre. L’algoritmo dell’ordine pubblico lo rendeva pressoché inevitabile. Non per questo era più facile accettare l’idea di avere potere di vita o di morte.
La notizia rimbalza veloce: un agente bianco ha ucciso un attentatore nero che, a sua volta, aveva ucciso uno stimato membro bianco della comunità. Charon è in fermento, come un vulcano pronto ad esplodere.
Il sesto senso dello sceriffo si attiverà sulla frase di Latrell “guardate nel suo cellulare” e per sbloccarne lo schermo, Titus andrà fino dal Coroner, dove è custodito il cadavere del professor Spearman, il cui dito indice aprirà una botola per l’Inferno: il professore amato da tutti i ragazzi e considerato irreprensibile, fa parte di un trio maledetto che con Latrell e un altro individuo celato dietro una maschera da lupo, hanno stretto un sodalizio per torturare e uccidere ragazzini di colore, sullo sfondo di rituali ammantanti di religiosità, angeli, demoni e roboanti frasi bibliche incise con lamette sulla carne delle sfortunate, piccole vittime.
La caccia all’Ultimo Lupo costerà a Titus dolore e perdite, ravvedimenti e pentimenti, nostalgie irrefrenabili e teneri addii. Ma alla fine, ne sarà dannatamente valsa la pena.
Flannery O’ Connor diceva che il Sud è infestato da Cristo. Ѐ infestato, non c’è dubbio. Dall’ipocrisia del cristianesimo. Tutte queste chiese, tutte queste Bibbie, e poi è proprio in posti come Charon che i poveri sono ostracizzati. Che si dà delle puttane alle ragazze che denunciano uno stupro. Che non posso andare al Watering Hole senza chiedermi se il barista m’ha sputato nel bicchiere. La gente dice che queste cose non succedono in un posto come Charon. Darlene, sono queste le cose che mandano avanti i posti come Charon. Ѐ questa la roccia su cui hanno fondato il tempio” disse Titus. Mandò giù il resto del whiskey e sparì in cucina.
Il sangue dei peccatori non è un romanzo contro la religione o il sentimento religioso, ma è un romanzo sociale che, a dispetto della costruzione di fantasia della sua ambientazione, è capace di riverberarci tutte le contraddizioni ancora esistenti nella vita dei cittadini del profondo Sud degli Stati Uniti, dove ai capi confederati della guerra civile si erigono statue per venerarli come padri fondatori di una cultura che ora come allora è permeata di razzismo violento; si utilizza la religione cristiana – dalle mille sfaccettature – come mezzo di indottrinamento e magra consolazione; si promuove una finta integrazione razziale che si traduce, invero, in un perpetrarsi di ghettizzazione.
S. A. Cosby è un cinquantenne figlio nero della Virginia che ha potuto sperimentare sulla sua pelle tutto ciò che scrive, ha sguardo tagliente e lessico impeccabile che, a mio modesto parere, lo colloca nell’empireo dei grandi scrittori americani contemporanei, della cui lettura ha fatto tesoro, come ammette lui stesso.
L’avevo già molto apprezzato in Deserto di asfalto ma attualmente ha già raggiunto un livello inarrivabile ai più, soprattutto per la varietà dei temi sociali trattati che vanno dallo strisciante razzismo all’uso indiscriminato di droghe e alcool nei ragazzi, all’eccesso di uso delle armi sia da parte delle forze dell’ordine che della popolazione civile (il passo riportato più in alto mi è sembrato il più significativo), dal proliferare di chiese e relativi pastori, sempre più espressione di pericolosi settarismi.
Rispetto a James Lee Burke, che è il più grande cantore dolente del Sud – come amo definirlo -, S. A. Cosby appare più desideroso di fare la differenza sui temi sociali e riversa questo attivismo, a tratti sfibrante, nel suo personaggio.
Titus Crown non è integro, perché nel suo passato nell’FBI c’è stata una macchia, lavata con delle dimissioni imposte, ma integerrimo nel senso più alto del termine. Conosce i suoi limiti, amplifica le sue colpe – se di colpa si tratta – ma si mantiene focalizzato sull’unico obiettivo per lui accettabile: proteggere e servire la sua comunità, il giuramento laico più alto che un uomo possa fare a un suo simile.
“Signorina Stoner, non affronto le mie indagini sulla base dello status sociale delle vittime. O contiamo tutti o non conta nessuno. Tutti meritano di avere qualcuno che li rappresenta” aveva detto Titus.
Ѐ vero che “everybody counts or nobody counts” è un’allocuzione abbastanza comune ma…chi vi ricorda? Non posso crederci che un affezionato lettore di Thriller Café non abbia la risposta pronta! Sono sicura che la citazione di Cosby non sia casuale, ma un sincero omaggio a Michael Connelly, del quale deve aver pur letto i thriller della saga di Harry Bosch, tanto il suo sceriffo Titus somiglia per indole al detective californiano.
In realtà, ho intravisto rimandi a grandi personaggi del mondo thriller anche in un’altra citazione.
Leggete qui: Se i media vogliono chiamarlo con un nome acchiappaclic, affari loro. Per quella che è la mia esperienza, quando dai un nome a questi assassini, li mitizzi. Che è esattamente quello che vogliono. E bramano. Quello che li eccita. Ma non sono miti, non sono Hannibal Lecter o John il Rosso, o Mastermind. Sono assassini e basta.
Non affezionatevi troppo allo sceriffo Titus perché, ahimè, lo scrittore ha già dichiarato che il romanzo che sta scrivendo non riguarda un’evoluzione di quel personaggio, che comunque sarà presente. Quindi, cercate di godervelo appieno durante la lettura.
Per quanto riguarda la struttura del romanzo, ho molto apprezzato che Charon sia considerata il personaggio principale non solo il luogo dell’azione criminale su cui si investiga. Sarà Charon ha presentare il punto della situazione umana e poliziesca via via, sarà lei, anche se in terza persona, a farci capire quanto sta sprofondando nell’abisso o quanto si sta sforzando per emergere.
Non importa da dove vieni o dove vivi, le persone sono persone. Possono essere gelose, odiose, deviate, malate. Rubano e mentono e rubano ancora. Si scopano i mariti e le mogli degli altri, i figli e le figlie. Vanno in chiesta ogni domenica e si stracciano le vesti e blaterano di fratellanza e “vivi in Cristo”, poi escono dalla chiesa, ti danno del negro da cortile e se vanno a casa a picchiare i figli. E poi hanno ancora la faccia tosta, il coraggio smisurato, di additare qualcun altro, o un’altra città, e dire: “Quelli sono peccatori, loro sì che sono dei mostri, noi no, noi di Charon no”.
Cosby sfiora anche un altro tema che gli è molto caro, quello della condizione della donna, che bianca o nera, rischia di restare invischiata in relazioni con uomini che esercitano la violenza in modo gratuito e continuo nei confronti dei propri cari.
Una citazione su tutte:
Mare-Beth Hillington ha provato a piangere per suo marito, ma si è ritrovata troppo sollevata nel rendersi conto che un bicchiere non lavato nel lavandino non le sarebbe costato un manrovescio.
Avrei aggiunto un “più” tra “sarebbe” e “costato”, ma il concetto è formidabile lo stesso.
Voglio chiudere con una pedanteria mia, che per nulla inficia il giudizio sull’ottima traduzione del testo di Giuseppe Manuel Brescia, ma vuole stigmatizzare le norme redazionali che impongono l’uso di un Italiano “semplificato” e “scorrevole” che però mi provoca all’istante un’irritazione alle cornee, se lo leggo, e un’otite purulenta, se lo ascolto scritto così:
Intravide il proprio riflesso nello specchietto retrovisore. L’uomo che lo fissava continuava a sorprendersi nell’atto di sbattere parole dure come pietre in faccia alla gente che aveva giurato di proteggere. Inserì la marcia. E si ritrovò a chiedersi di chi era la colpa. Dell’uomo o della gente.
E si ritrovò a chiedersi di chi FOSSE la colpa, non di chi ERA la colpa. Ѐ un congiuntivo dubitativo!
Basta, mi taccio sulla sintassi ma non sull’invitarvi a leggere tutto di un fiato questo bellissimo romanzo che possiamo riassumere con questa massima dell’Autore: Il male raramente è complicato. Ѐ solo che ha una gran cazzo di faccia tosta. Alla prossima!
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