Il botto - Emilio Martini

Dodicesimo romanzo della ormai pluriennale saga basata sul vicequestore Gigi Bertè, omone ultra quarantenne, milanese di origini calabresi, che non si vergogna, a dispetto dell’età e del proprio ruolo, di andare in giro con un lungo e fluente codino appeso alla nuca. Le sue creatrici, le milanesi Elena e Michela Martignoni che si celano, ma sempre meno, dietro lo pseudonimo di Emilio Martini, ci regalano ora un’appassionante storia avvolta in un intrigo particolarmente complesso, che si diverte a giocare col lettore, spostando sapientemente i sospetti da un soggetto all’altro, come in un gioco i specchi. Alla fine la soluzione salterà fuori grazie al grande tragediografo greco Sofocle. Ma procediamo con ordine. “Il botto” è ambientato a Lungariva, ridente cittadina ligure dove Berté dirige il locale commissariato. Siamo nell’estate del ’20, cioè l’estate dell’illusione, nella quale gli italiani avevano creduto di essersi lasciati la pandemia alle spalle, salvo poi il brutale risveglio autunnale. Quindi l’atmosfera è quella della libertà almeno parzialmente ritrovata: mascherine sì e no, distanziamenti se possibile, ristoranti, bar, hotel aperti. Lungariva, città di mare, è una meta turistica e vive quei giorni vivacemente. In uno di quei giorni, una domenica, Gigi Berté se ne va bel bello (come direbbe il Manzoni) a passeggio lungo il mare. Ma gli capitano due avventure. La prima sgradevole: tra la folla gli sembra di scorgere un volto noto, quello del Loiodice, pericoloso criminale esperto in esplosivi che lui anni prima ha portato in galera. Il poliziotto si convince di aver sbagliato, quell’uomo è a San Vittore, non potrebbe essere lì. La seconda avventura è invece piacevole, almeno sembra preannunziarsi come tale. Una ancor giovane e attraente conoscente, Marinella Solari, esperta velista, che incontra per caso, lo invita a fare un giro sulla sua barca che, attenzione, si chiama Antigone. Dunque si parte, ma al largo incrociano il potente motoscafo di Vittorio Cella, discusso viveur locale. I due natanti passano vicini, troppo. Per cui l’esplosione, il botto, che fa saltare in aria la barca del Cella, di rimbalzo distrugge anche Antigone. Bertè ne esce pressoché illeso, Marinella viene ricoverata in gravissime condizioni, il Cella resta ucciso.    

Berté viene subito assalito da un atroce dubbio. Si informa e appura che l’uomo che ha intravisto quella mattina è proprio il bombarolo Loiodice, uscito dal carcere da qualche tempo in libertà condizionata, dalla quale si è sottratto da alcuni giorni fuggendo da Milano. La coincidenza tra la presenza del bombarolo a Lungariva e l’esplosione genera un sospetto, che diventa certezza quando i periti assodano che sulla nave del  Cella era stata piazzata una bomba. Dunque il poliziotto avvia la sua indagine, che si rivela tortuosa e accidentata. Infatti in questo caso non si può applicare il metodo classico, tanto caro a Maigret, cioè partire dalla personalità della vittima. Perché presto scopriamo che Vittorio Cella era “Uno, nessuno e centomila”: imprenditore plurifallito in diversi settori, bugiardo patologico, gran seduttore di belle donne, indebitato con tutti e pure dedito ad una vita sontuosa, di recente aveva fatto mostra di godere di una improvvisa ricchezza, impegnandosi a   saldare debiti, facendo regali e addirittura sovvenzionando opere pie. Il problema è che nessuno conosce la vera origine di tale subitanea opulenza. O meglio, a ciascuno dei suoi amici o parenti di tale sua fortuna ha dato una spiegazione diversa: si va da un grosso affare immobiliare in Mozambico al ritrovamento fortuito di un bel po’ di diamanti, ma altro ancora. Berté interroga la galassia umana che faceva corona all’estinto, abbiamo una ex moglie, un figlio, un vecchio zio ricco e avaro, una ballerina brasiliana che afferma di essere incinta di lui, il minaccioso fratello di quest’ultima e una serie di vecchi amici apparentemente tutti tanto affezionati, ma tutti anche suoi creditori, senza dimenticare il marito della velista ferita nel botto. Tanti i possibili moventi, ma tanti anche gli alibi. Tuttavia il vicequestore, e non c’era da dubitarne, verrà a capo anche di questo mistero. Ad aiutarlo saranno i suoi amici e colleghi della questura di Milano che hanno seguito le mosse del bombarolo e, come dicevamo, il grande Sofocle, che scrisse una tragedia nella quale si esalta l’amore fraterno e il conflitto morale che può sorgere tra la giustizia e la legge. La tragedia si intitola Antigone, sì come la barca di Marinella Solari, sulla quale Gigi ha rischiato di rimetterci le penne.

Ancora una volta le sorelle Martignoni ci fanno dono di un romanzo intrigante, di buon ritmo, da leggere tutto di un fiato, che trova i suoi punti di forza nella scrupolosa e vivida descrizione dell’ambiente e nello studio psicologico dei personaggi: una varia umanità di inquieti, simulatori, psicotici, ipocriti e/o indifferenti che animano questa tragedia moderna. Nella quale non manca il coro, ne fa le veci la “Bastarda”: così Bertè chiama la sua coscienza, quell’altro se stesso che da dentro lo tormenta, non gli dà tregua, costringendolo a inseguire e scovare il male, che è sempre bravo a celarsi dietro le più ingannevoli apparenze.

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