Di Soledad, l’ultimo romanzo di Maurizio de Giovanni, si può parlare per il quadro storico che tratteggia con l’ambientazione nel fine anno del 1939, vigilia di guerra. Ma si può parlarne anche come di dettagliato e articolato quadro sociale della Napoli di quel tempo. E non meno giustificata è una lettura in chiave politica, con fascisti e antifascisti a muoversi sulla scena. Tutto ciò è vero, ma non racconta l’anima della storia che si dipana nelle 279 pagine del romanzo, cioè la solitudine, Soledad per dirla all’argentina, evocando come fa De Giovanni l’omonimo tango di Carlos Gardel. Una musica arricchita da un testo lancinante ispirato alla perdita dell’amata.
Una giovane e affascinante donna uccisa in casa, un uomo più maturo troppo facile da sospettare per essere il vero colpevole, un dedalo di panorami umani e sociali in cui pare impossibile trovare il bandolo della matassa. Che pure c’è, e anche non poco in evidenza, ma che De Giovanni sa celare come una figura minore in un grande affresco.
Il lettore amante del giallo inteso come intreccio da svelare può forse trovare disorientanti le non poche pagine in cui la vicenda poliziesca non progredisce lasciando spazio a ritratti tratteggianti i personaggi e i diversi ambienti collegati alla storia come i satelliti al proprio pianeta. Un’osservazione analoga potrebbe essere fatta per la componente parapsicologica ricorrente, con il protagonista commissario Ricciardi che “sente” parlare le vittime assassinate, così come la moglie morta. Ma il successo editoriale e televisivo di De Giovanni è tale da rendere impossibile che tale elemento non sia noto. Dunque, è improbabile che il lettore sia colto di sorpresa da ciò.
I diversi capitoli-affresco di figure e situazioni si intercalano con quelli che sviluppano la storia, pressoché sempre attraverso dialoghi. Uno stile in cui De Giovanni sciorina cadenze e ritmi diversi, per esempio con divagazioni deamicisiane per parlare della figlia del commissario, o righe da letteratura rosa per ricordare la moglie. Il bello è che tutto quadra, che gli ingredienti diversi vanno a formare una narrazione che coinvolge e si fa gustare.
Oltre alla storia e al quadro storico, De Giovanni sa usare anche mezzi diversi per dare soddisfazione al lettore. Per esempio, con i numerosi modi di dire e proverbi campani del Cilento messi in bocca alla tuttofare-governante della figlia del commissario, una piccola galleria di saggezza popolare contadina. Sono fondamentali nel delineare il personaggio e incuriosiscono, non di rado strappando anche il sorriso. Dell’autore si fa notare poi l’attenzione per la musica. Oltre al citato tango argentino Soledad, il cui testo squisitamente “tanguero” viene filologicamente analizzato da De Giovanni, con tanto di omaggio all’autore Alfredo Le Pera, la “colonna sonora” del romanzo ricorre anche a Bessie Smith e alla bogartiana As Time goes by. Ciò, manco a dirlo, assieme a vari riferimenti a classici napoletani. Nel panorama “giallista” italiano quasi dominato dalla luce delle città del sud, Soledad può colpire per l’atmosfera in cui prevalgono il freddo e la pioggia (già la copertina dichiara il tempo della vicenda: dicembre). De Giovanni è abile nel trasmettere al lettore la situazione. I protagonisti si muovono con disagio inzuppandosi abiti e scarpe, mentre sono sofferenti le figure più deboli che contornano le varie scene, come i bambini. Perché la fotografia della Napoli del dicembre 1939 che De Giovanni fornisce con il romanzo non lascia spazi ai trionfalismi ufficiali dell’epoca, anzi li contesta dichiaratamente. La miseria viene raccontata, quasi come un controcanto al clima intimidatorio, prepotente e violento dei fascisti che si muovono sullo sfondo e nella stessa vicenda del romanzo. Così come le pagine di Soledad non fanno sconti alla spirale antiebraica che nella atmosfera prebellica si faceva sempre più evidente e soffocante.
Recensione di Franco Fiorucci.
Libri della serie "Commissario Ricciardi"
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Soledad – Maurizio de Giovanni
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