
Ecco una buona notizia per i nostri avventori del Thriller Cafè: torna il commissario Ricciardi. Nelle scorse settimane è infatti uscito per Einaudi “Caminito” di Maurizio de Giovanni, ultima fatica letteraria del celeberrimo scrittore napoletano. Il titolo è un omaggio a un indimenticabile tango, che, come ci ricordano i personaggi nel romanzo, è stato scritto in due tempi e a quattro mani: prima la musica e poi le parole. Una canzone che ha fatto il giro del mondo e di cui esistono numerose “cover”, come si direbbe con un linguaggio moderno (da noi Claudio Villa e Mina solo per citarne un paio di lusso).
Proprio in Argentina ha inizio questo romanzo. Dove la nostra Livia Lucani, cantante da sempre innamorata del nostro commissario, è dovuta fuggire e ora si fa chiamare Laura Lobianco, si esibisce nei locali di Buenos Aires, cercando di capire come orientare il proprio futuro. Siamo nel 1939 e abbiamo quindi fatto un bel balzo in avanti rispetto alle ultime storie del nostro commissario, siamo sull’orlo del baratro storicamente parlando, alla vigilia di una catastrofe mondiale più che annunciata. Per la precisione siamo in aprile, come si capisce dal sottotitolo “Un aprile del commissario Ricciardi”. E in Argentina siamo quindi nel pieno dell’autunno, con la nostra Laura che si prepara a una stagione fredda, anche dal punto di vista metereologico.
A Napoli invece, meteorologicamente parlando, sta per scoppiare la primavera e la gente ritorna a uscire con più voglia di stare all’aria aperta. Ed è in uno di questi frangenti che si consuma un delitto efferato. Due giovani amanti vengono trovati orrendamente uccisi mentre si erano appartati. Vengono convocati sul luogo del delitto il commissario Ricciardi, il fedele brigadiere Maione e il medico Bruno Modo, che dovranno cercare di scoprire chi ha potuto compiere un simile gesto. E a far ulteriormente soffrire il commissario c’è sempre “Il fatto”, la sua capacità di leggere le ultime emozioni da vivi nella mente di coloro che sono stati assassinati.
Devo dire che De Giovanni e il commissario Ricciardi ritornano con il solito piglio e la solita verve cui ci hanno abituati. Tornano a parlarci di un’epoca remota, che però getta la sua luce sinistra anche sui nostri tempi. Un po’ perché alcuni vizi molto italiani non hanno tempo, come il salire sul carro del vincitore, il voler far carriera più per favori che per meriti, il tentare talvolta di essere più furbi che santi. Un po’ perché chi scrive del passato lo fa anche per parlare del presente, per ricordarci che il brutto vizio del potere di idolatrare sé stesso non tramonta mai, così come ci sono persone straordinarie che non saranno mai in vendita e custodiscono gelosamente la loro libertà senza macchiare la propria dignità.
Oltre a questo, e alla grande capacità di tratteggiare un personaggio che ormai ci è entrato nel cuore, De Giovanni sa descrivere perfettamente il clima cupo e deprimente che precede l’entrata in guerra dell’Italia. Con le sue pennellate sul paesaggio umano e naturale, ricrea alla perfezione la minaccia incombente, lo sfacelo materiale e morale del nostro Paese, il declino inarrestabile che dopo le leggi razziali il regime ha imboccato. I piccoli gesti di delazione, meschinità e tracotanza che vengono quotidianamente perpetrati a danno dei deboli, dei liberi e dei giusti.
Ma il messaggio di De Giovanni non è quello di cedere allo sconforto. Ancora una volta, Ricciardi ci ricorda che tenere la schiena dritta paga e che, come diceva un suo concittadino illustre, la nottata deve passare. A differenza del poeta Coria Penaloza, che ha scritto “Caminito” quando ormai il suo cuore aveva perduto ogni speranza e la fiducia nell’avvenire si era spenta in un dolce tango nostalgico, la Laura/Livia che finisce la sua serata come cantante, proprio come De Giovanni, ha ancora la convinzione che un altro mondo deve essere possibile.