Il senso del dolore – Maurizio de Giovanni
Il bambino morto stava all’impiedi […]. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva: Scendo? Posso scendere?
L’uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancor prima di vederlo […]. E sapeva pure che al terzo piano del palazzo d’angolo […] un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore della giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non l’avrebbe più rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
L’incipit, così particolare, è quello de Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi, il romanzo che, primo delle celebri Stagioni, ha segnato l’esordio letterario di Maurizio de Giovanni. Un libro particolare, appunto: nato racconto (I vivi e i morti, presentato al concorso per giallisti emergenti indetto da Porsche Italia, presso il Gran Caffè Gambrinus di Napoli), è poi stato rivisto, ampliato e pubblicato come romanzo prima per Graus Editore (Le lacrime del Pagliaccio, 2006) poi per Fandango (2007, col titolo odierno, quello definitivo).
E proprio di dolore trattano i fatti immaginati dall’Autore napoletano; dolore, ma pure morte e condanna e arbitrio e costrizione e amore aleggiano sulla trama e i personaggi che la compongono.
Anni ’30. Una notte d’un marzo insolitamente freddo. È la sera della prima di “Pagliacci”, lo spettacolo teatrale di cui il famoso tenore Arnaldo Vezzi avrebbe dovuto essere protagonista indiscusso. Ma Arnaldo Vezzi ha la gola squarciata: è un cadavere dentro un camerino chiuso dall’interno, nelle viscere del San Carlo di Napoli, nei suoi occhi la sfumatura d’una lacrima tardiva.
Ovviamente, la notizia dell’orribile morte scuote l’opinione pubblica; la burocrazia della Città è preoccupata, così come i vertici romani del Partito, di cui il grande tenore era “amico” e strumento di propaganda.
Le indagini toccano a Luigi Alfredo Ricciardi, poliziotto enigmatico e tormentato; è l’uomo “senza cappello” che cammina “a passo svelto”, “le mani infilate nelle tasche del soprabito grigio scuro, la testa incassata nelle spalle” per non dover guardare una Città di cui però sente la Morte; perché Luigi Alfredo Ricciardi percepisce “il dolore”, osserva “il rimpianto, la sofferenza, sente “gli artigli che si spezzano nell’ansia di trattenere l’ultimo lembo della vita che se ne va”: vede, in sintesi, cadaveri, Morte, o meglio, partecipa a “l’ultimo pezzo della vita” che precede la Morte.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, Ricciardi scava più di chiunque altro, in Questura: è un inquirente solerte, implacabile; per questo, nonostante l’invidia e antipatia che suscita in colleghi e superiori, il Caso viene assegnato proprio a lui.
L’indagine lo porterà a scoperchiare il passato nero della vittima, a cercare tra i mille corridoi del teatro San Carlo e poi fuori, nella Napoli degli anni Trenta, una Città iniqua, contraddittoria, insolitamente gelida tra coltri di nubi e brezza sferzante.
E sembra d’esser lì con lui, tanta è la maestria dell’Autore nell’architettare un’ambientazione per certi versi rallentata, dove Tempo e Spazio sostanziano un Mondo quasi zippato, proprio come il suo personaggio principale.
È una realtà, quella di Ricciardi, di uomini e donne perlopiù (ancora) solo abbozzati: il brigadiere Maione, la Tata, il questore e l’assistente, la bella Livia, don Pierino, Maddalena, Michele, la dolce Enrica. Un “popolo” eterogeneo, accattivante, dal quale emerge, unico, il ritratto di Arnaldo Vezzi, “il più grande tenore del suo tempo”, il “preferito del Duce”: un “uomo da poco”, al quale “Dio s’è divertito a dare un talento immenso”; un uomo che “riteneva il mondo intero inferiore a lui e indegno di frapporsi tra lui e il posto che voleva raggiungere”; un uomo che “spazzava via con un gesto della mano, come una mosca, chiunque si trovasse sul suo passaggio”.
Vezzi è dunque un degno anti-antieroe; un pagliaccio in lacrime di fronte alla Fine, vittima “della Fame e dell’Amore”. Attorno a lui si snoda un intreccio in sé non particolarmente complesso, né originale (date anche le sole 189 pagine del manoscritto), ma comunque adatto a presentare Ricciardi e il suo stoicismo tutto particolare: un personaggio (e lo “vedremo” presto anche in TV, nella fiction RAI attualmente in fase di riprese) profondamente innovativo, che ha saputo intrattenere centinaia di migliaia di lettori per più d’un decennio, fino al recente epilogo ne “il Pianto dell’Alba. Ultima ombra per il commissario Ricciardi”, che ha segnato la (degna) conclusione del suo percorso narrativo.
Recensione di Alessio Massaccesi
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