Con La morte nomade si conclude la trilogia di Ian Manook, della quale abbiamo già parlato nelle scorse settimane (qui le recensioni di Morte nella steppa e Tempi selvaggi), dedicata al commissario Yeruldelgger, uno dei personaggi letterari della narrativa crime più interessanti e riusciti degli ultimi anni.
In quest’ultimo capitolo il commissario Yeruldelgger ha lasciato la polizia di Ulan Bator, stanco di violenza e corruzione, e ha piantato la sua yurta nell’immensità del deserto del Gobi, deciso a  ritornare alle tradizioni dei suoi antenati e a purificarsi dal male che lo ha circondato per anni. Ma la pace non sembra essere il destino del Commissario, che suo malgrado si troverà a ad avere a che fare con Tsetseg che cerca la figlia rapita, Odval che ha visto uccidere il suo “amore nomade”, pittori girovaghi, un bambino che scava nelle miniere e Guerlei, un’irascibile poliziotta, e non possono mancare Solongo e gli altri personaggi che abbiamo già imparato a conoscere.   Yeruldelgger vorrebbe solo attraversare la steppa per raggiungere un nadaam, festività nazionale dove vorrebbe gareggiare come arciere, ma il viaggio andrà dalle aride steppe asiatiche al cuore di Manhattan, dal Canada all’Australia.
In questo romanzo ci sono tutti i pregi e i difetti dei precedenti capitoli: una trama rocambolesca, violenza, intrecci complessi, lampi di umorismo  e personaggi affascinanti quanto improbabili.
Quest’ultimo capitolo è il più malinconico dei tre, e meno legato alla trama poliziesca: l’aspetto più interessante è forse proprio il lungo addio al Commissario – Manook ha dichiarato più volte che il suo progetto si sarebbe concluso con questi tre romanzi – , uomo antico che sembra scivolare via, rappresentazione di una cultura antica e sciamanica in equilibrio con la terra, sopraffatta dalla modernità feroce. Gli scrittori ci hanno spesso abituato a personaggi che – prevalentemente per motivi di mercato – vengono ripescati in prequel , sequel, spinn off ma non sembra proprio questo il caso: Yeruldelgger E’ la Mongolia, quella magica, dura e splendida dei tempi passati , sconfitta economicamente, ecologicamente e socialmente dal progresso. E di conseguenza la parabola narrativa giunge con questo terzo capitolo alla sua logica e coerente conclusione: la morte nomade, prima ancora che la morte dei personaggi che via via incontriamo, è la morte della Mongolia.

A conclusione della trilogia si possono trarre alcune conclusioni.

La trilogia dedicata a Yeruldelgger è una trilogia stilisticamente molto compatta, coerente.

C’è chi ha criticato la scarsa plausibilità di alcune situazione e una violenza a volte eccessiva. Non è però casuale che uno dei personaggi – al quale è impossibile non affezionarsi – si chiami Gargantua: lo stile complessivo scelto da Manook è quello della letteratura popolare, fatta talvolta di eccessi, di situazioni paradossali e umorismo immediato. E’ un scelta che sarebbe estremamente ingeneroso liquidare come semplicistica, tutt’altro: la letteratura popolare ha sempre avuto il pregio di raggiungere un numero elevatissimo di lettori, e nel legame empatico che si crea con i personaggi i lettori inevitabilmente si confrontano con i temi più complessi e impegnativi che i romanzi propongono. La Francia del resto è la patria dei romanzi d’appendice, letteratura popolare per eccellenza che ha avuto tra i suoi autori nomi come Balzac, Hugo, Dumas e al di la dei confini francesi Dostoevskij, Poe, Dickens.
In fondo, il commissario Yeruldelgger de “la morte nomade” ha la stessa malinconia di un vecchio moschettiere di “Vent’anni dopo”: ed è innegabile che Yeruldelgger sia un gran personaggio. Un personaggio popolare, nell’accezione più nobile del termine.

La trilogia di Manook è sicuramente una trilogia imperfetta, che può deludere chi cerca la raffinatezza di un Jean Claude Izzo o di un Ughes Pagan, ma godibile per chi apprezza lo stile rocambolesco di romanzi anche d’azione: è però una trilogia che ci ha fatto incontrare un grande personaggio maschile, circondato da personaggi femminili forti e mai banali, che ci ha fatto immensamente amare un paese – o forse più un luogo dello spirito – come la Mongolia, e che ci ha fatto messo di fronte l’altra faccia del nostro modo di vivere tecnologico, quella fatta di danni ambientali, disuguaglianze sociali, povertà e perdita di identità. E non si può davvero chiedere molto di più a dei romanzi.

Il Commissario Yeruldelgger resterà nei cuori di molti lettori, e ci mancherà.

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Articolo protocollato da Marina Belli

Lettrice accanita, appassionata di rugby e musica, preferisco – salvo rare eccezioni – la compagnia degli animali a quella degli umani. Consumatrice di serie TV crime e Sci Fy, scrittrice fallita di romanzi rosa per eccesso di cinismo e omicidi. Cittadina per necessità, aspiro a una vita semplice in montagna o nelle Highland scozzesi (a condizione che ci sia una buona connessione).

Marina Belli ha scritto 143 articoli: