Uscito circa un anno fa, recuperiamo oggi la recensione di Tempi Selvaggi, secondo volume della trilogia Yeruldelgger di Ian Manook (traduzione di Maurizio Ferrara) del cui primo capitolo quale abbiamo già parlato settimana scorsa

È inverno inoltrato e la steppa è avvolta nella morsa dello dzüüd: le temperature si aggirano sui meno trenta, un vento gelido imperversa e il paesaggio è spazzato da tormente di neve. Sembra di respirare vetro. È la leggendaria sciagura bianca, che al suo passaggio lascia dietro di sé una scia di cadaveri. Milioni di vittime, uomini e animali. Da un cumulo di carcasse congelate, incastrata fra un cavallo e una femmina di yak, sbuca la gamba di un uomo. È solo il primo di una serie di strani ritrovamenti. Nel frattempo, in un albergo di Ulan Bator, viene assassinata la prostituta Colette, delitto del quale è accusato proprio il commissario Yeruldelgger.

Questa la sintesi dei primi capitoli del secondo episodio della trilogia di Ian Manook dedicata a un commissario insolito quanto insolita l’ambientazione di questi romanzi.
Per coloro che hanno amato il primo romanzo di Ian Manook, non parrà strano ritrovarsi catapultati nella Mongolia contemporanea: Tempi selvaggi inizia poche settimane dopo la fine del primo romanzo, quindi è un romanzo che – pur mantenendo una sua trama – è di fatto la prosecuzione del primo e di conseguenza difficile da leggere come opera autonoma.

In Tempi Selvaggi si trovano tutti i motivi di interesse e tutti i motivi di perplessità già presenti nel precedente “Morte nella steppa”.

La Mongolia di Manook è una terra affascinante e inaspettata, che alterna visioni di una terra permeata di una cultura arcaica e pura, legata a una natura di straordinaria bellezza, alle istantanee di una nazione preda delle multinazionali minerarie, di Ulan Baator tanto affascinante quanto corrotta e inquinata, di un popolo sradicato culturalmente e socialmente: questo sicuramente è uno dei principali motivi di interesse non solo di questo romanzo ma dell’intera trilogia (che si chiuderà con il recentissimo La morte Nomade), ovvero il portare alla ribalta un Paese pressoché sconosciuto al mondo occidentale. Se però in Morte Nella steppa questa ambivalenza era esaltata dall’effetto sorpresa, in questo secondo capitolo parte del fascino viene meno e si cominciano a intravedere alcuni limiti al racconto: non tanto sugli aspetti socio-economici, e in questo i libri di Manook esprimono una netta e forte critica sopratutto sugli aspetti ambientali del cosiddetto progresso, quanto sul realismo dei personaggi. Intendiamoci, niente di diverso dal primo capitolo, e quindi chi ama Manook troverà una continuità stilistica di ottimo livello. Ma esaurito l’effetto sorpresa ci si interroga – legittimamente – sulla credibilità di personaggi come quello del professore che gestisce un museo nel mezzo del nulla con la sola compagnia di uno Yak di nome Gargantua (sono molti i riferimenti alla letteratura francese sparsi qua e là, quando forse sarebbero più coerenti quelli alla cultura sovietica data  l’occupazione militare protrattasi a lungo), o dei protagonisti stessi che – anche nelle loro azioni – sono spesso sopra le righe e fuori dalle regole.

Questa percezione di eccesso si riflette anche nella trama, nella quale – forse – viene messa troppa carne al fuoco, con un effetto pulp talvolta sgradevole e che a tratti pare un mix cinematografico a base di Fast and Furious e il Bruce Willis dei tempi maturi (quello meno ironico e più malinconico).

La Mongolia scompare un po’ all’interno della trama – ed è un peccato, il suo fascino profondo era uno dei maggiori pregi del precedente romanzo – ma si affacciano nuovi scenari, e sarà interessante vedere l’evoluzione del Commissario Yeruldelgger al di fuori del contesto nel quale abbiamo imparato ad amarlo: ed in fondo questo è il reale motivo per il quale vale la pena di leggere un romanzo imperfetto, con parecchie pecche nella trama, rocambolesco e allo stesso tempo oscuro. Perché  Yeruldelgger è forse uno dei commissari più interessanti – non il migliore, non il più credibile, ma sicuramente affascinante – comparsi nel panorama editoriale negli ultimi anni: e proprio come il personaggio di molti film d’azione non si può non amarlo nonostante tutto, probabilmente perché in ognuno di noi esiste una radice selvaggia, un desiderio di giustizia primitivo e la necessità di un ritorno a un legame spirituale con la terra che  Yeruldelgger sa incarnare.

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Articolo protocollato da Marina Belli

Lettrice accanita, appassionata di rugby e musica, preferisco – salvo rare eccezioni – la compagnia degli animali a quella degli umani. Consumatrice di serie TV crime e Sci Fy, scrittrice fallita di romanzi rosa per eccesso di cinismo e omicidi. Cittadina per necessità, aspiro a una vita semplice in montagna o nelle Highland scozzesi (a condizione che ci sia una buona connessione).

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