Mato Grosso – Ian Manook
Da poco pubblicato in Italia, recensiamo oggi Mato Grosso, nuovo romanzo Ian Manook per i tipi di Fazi.
Jacques Haret, autore francese di un bestseller ambientato in Brasile, arriva a Rio de Janeiro, dove è stato invitato da un editore brasiliano suo ammiratore. Alloggerà a casa sua, a Petropolis. Dormirà nella stessa stanza in cui Stefan Zweig – il suo scrittore di culto – e la moglie Lotte si sono tolti la vita. Ma dietro all’invito c’è un piano ben orchestrato: presto Haret scopre che l’editore non è altri che Figueiras, un ex poliziotto conosciuto trent’anni prima durante un soggiorno di alcuni mesi nel Mato Grosso, soggiorno che, avvenuto al tempo di un’inondazione storica del Pantanal, è l’argomento del suo celebre Romanzo brasiliano.
Con Mato grosso Manook compie una decisa virata rispetto alla trilogia di Yeruldelgger, sia in termini di ambientazione che di ambizione letteraria. Abbandonata la folgorante e nitida bellezza della Mongolia, Manook porta il lettore nel Brasile più profondo in un romanzo che si pone ambizioni elevate, stilisticamente e di contenuto. Mato grosso sfrutta la tecnica del “romanzo nel romanzo” per costruire una sorta di noir tropicale, dove l’elemento noir talvolta passa in secondo piano rispetto alla volontà di costruire un metaromanzo sulla natura selvaggia della natura e dell’uomo e sul senso della sopravvivenza.
Anche in Mato grosso la natura diventa metafora, e come nella trilogia mongola è uno degli elementi centrali della narrazione: ma se la Mongolia di Yeruldelgger è abbagliante e viva, in Mato grosso la descrizione vuole trasmettere una sensazione di torpore tropicale, di grandezza e lentezza. Elemento simbolico prevalente è lo jacaré, il caimano che popola le acque del Pantanal e che è una sorta di nemesi del protagonista (palese è il gioco di assonanze tra jacaré e Jacques Haret, il protagonista del romanzo).
Mato grosso è anche un romanzo pieno di riferimenti letterari, che – come molti altri elementi del libro – Manook esplicita già dalle prime pagine del romanzo: vi sono dichiarati riferimenti a Stefan Zweig e ad Emilio Salgari, ma si possono facilmente intuire i richiami all’Hemingway “africano”, a Conrad e per molti aspetti al bellissimo La voie royale di Malraux.
Dal punto di vista letterario l’esperimento è perfettamente riuscito, ma non mancano le note stonate. Manook mette molta carne al fuoco, forse troppa, ed utilizza uno stile letterario molto “francese” – talvolta quasi enfatico – che non sempre si sposa bene con situazioni che gioverebbero di una maggior linearità. Manook sembra talvolta privilegiare l’ambizione di fare letteratura “alta” facendo passare in secondo piano la storia: il romanzo così sembra far fatica a decollare nelle decine di pagine nelle quali l’autore si attarda a descrivere il Patanal , con tutto il suo carico metaforico, svelando a poco a poco una storia non particolarmente originale di violenza e passione.
Rispetto alla trilogia di Yeruldelgger, si sente la mancanza di due elementi che così brillantemente avevano caratterizzato i primi tre romanzi.
Il Brasile descritto in Mato grosso non ha l’abbagliante intensità della Mongolia: il racconto è – con ogni probabilità con intenzione – più lento e opprimente, per trasmettere la sensazione di caldo, di pericolo, di sensualità (che è l’aspetto meno riuscito).
Manca poi un personaggio della forza del Commissario, così ben delineato, che rendeva secondarie le non poche pecche della trilogia: il protagonista di Mato grosso è un personaggio per il quale non si prova simpatia né empatia, si è tentati a volte di fare il tifo per l’antagonista, personaggio discutibile anch’esso.
Il risultato è un romanzo interessante dal punto di vista stilistico, con molte ambizioni, consigliabile a un lettore che ami uno stile elaborato, e dove forse l’elemento noir è quasi un pretesto.
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