Il Montacarichi – Frédéric Dard
A volte una sola idea regge il libro. Viene da pensarlo avendo tra le mani Il Montacarichi, del francese Frédéric Dard, autore da oltre quattrocento titoli, con vendite stratosferiche grazie soprattutto alle storie bislacche, poco ortodosse – non soltanto nel linguaggio – del suo personaggio principe il commissario Sanantonio, proposto con storie scritte in prima persona tanto che per le sue storie lo stesso nome del poliziotto è anche lo pseudonimo dell’autore.
Se qualcuno ha conosciuto i libri di Sanantonio (personaggio e firma) non pensi a pagine analoghe con Il Montacarichi. È tutt’altra cosa. E va subito detto che Dard fu (è scomparso nel 2000 a 79 anni) molto apprezzato anche con gli altri suoi romanzi “non Sanantonio”, firmati questi con il proprio nome.
Qual è l’idea chiave del Montacarichi? Il contrasto tra la solitudine più cupa e l’atmosfera della vigilia di Natale, quando tutto è sorriso, gioia, affetti. Già dire questo rende l’idea, ma se poi si aggiunge che l’atmosfera natalizia è della Parigi illuminata e festaiola, e la solitudine è quella di un uomo che riguadagna la libertà (dopo sei anni di galera) proprio il 24 dicembre, allora il risultato diventa un narco voltaico di emozioni.
Ad attendere l’ex carcerato non c’è nessuno, solo la vecchia casa lasciata dalla madre, deceduta mentre il protagonista viveva la sua forzata “vacanza” nel sud della Francia.
Inevitabile che l’atmosfera fatta di luminarie e preparativi culinari è un humus formidabile per far avvertire lancinanti desideri di tenerezza, di affetto, d’amore, appunto. Facile lasciarsi catturare dal primo sorriso inatteso, senza domandarsi se le cose non sono un po’ troppo facili.
Il Montacarico può essere un giallo “ferroviario”, per dirla con Sciascia, per la stringatezza del racconto e la facilità di lettura. Le appena 139 pagine (tra l’altro con interlinea abbondante…) del libro volano via velocemente grazie alla capacità di Dard di catturare il lettore con personaggi descritti con pochi ma efficacissimi tratti, analogamente alle ambientazioni, mentre la vicenda è un cocktail di ingredienti diversi ben dosati e shakerati.
Ci sono le location buie e al limite del sordido che strizzano l’occhio a Simenon (non tanto quello di Maigret, quanto l’altro, il Simenon dei “romanzi duri”). Quanto alla vicenda sa emettere flash chandleriani (sotto forma di un cadavere sparato e insanguinato, così come di un interrogatorio di polizia che potrebbe essere ambientato a Los Angeles). Ma non basta. Ne Il Montacarichi Dard pare voler accontentare anche i cultori della vecchia scuola, quella all’inglese, fatta di narrazioni con un elemento di carattere tecnico che rende possibile la storia.
A fare da collante per il tutto c’è la filigrana dei pensieri del protagonista e della coprotagonista, un “corpus” che può benissimo far percepire Il Montacarichi come un romanzo psicologico, non soltanto un giallo, un polar per dirla alla francese.
Ce n’è già abbastanza così, ma pur con tutte le attenzioni per non svelare nulla in grado di rovinare il piacere della lettura, si impone nelle segnalazioni relative al romanzo il finale “aperto”. Chiuso il libro si sa perfettamente che cosa è successo ma non si sa quale potrà essere la definitiva conclusione della vicenda narrata. Così che ognuno può anche lavorare di fantasia “scrivendosi” un capitolo d’appendice rispondendo a piacimento all’interrogativo lasciato dal protagonista.
Ovviamente non mancano le possibilità di ricorrere ai ma e ai però. Nelle pagine del libro qualche invenzione esagerata c’è. Una per tutte (e il “tutte” non vuole dire che siano molte): immaginare di suonare un disco di musica di Wagner quando si mette a letto una bambina onestamente fa senso più di una scena di omicidio. Ma la cosa non inficia il racconto, né la suspense.
Dunque, se c’è in programma un viaggetto di due-tre ore, o i programmi TV non promettono niente di buono per la sera, Il Montacarichi può essere la soluzione giusta. Non è una novità: il romanzo fu pubblicato la prima volta nel 1961, 63 anni fa. Fa effetto a pensarci, a dirlo, a scriverlo (ancor di più per chi nel 1961 c’era…), ma se non lo si sapesse, potrebbe tranquillamente essere percepito come una creazione degli ultimi anni. In Italia era stato tradotto la prima volta nel 1966. Nel 2019 Rizzoli lo ha riedito nella collana neroRizzoli, per la traduzione di Elena Cappellini.
Recensione di Franco Fiorucci.
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