Nella sequenza più celebre del film, Tom Cruise è sospeso tramite una complessa imbracatura all’interno del blindatissimo caveau informatico nella sede della CIA a Langley. La sua “missione impossibile” è quella di prelevare dal computer centrale la lista top segret degli agenti NOC da utilizzare come merce di scambio per venire a conoscenza del nome della talpa che ha procurato la morte della sua squadra a Praga. Franz, il complice che sta reggendo la fune dall’interno del condotto dell’aria condizionata, molla improvvisamente la presa a causa di un topo entrato nel condotto e Cruise si ritrova sospeso, nella posizione dell’uomo vitruviano ma in orizzontale e con il volto verso terra, a pochi centimetri dal suolo su cui sono sistemati dei sensori talmente sensibili per cui, se il pavimento venisse soltanto sfiorato, provocherebbe l’immediato inserimento dell’allarme.

De Palma costruisce una serie di piani d’ascolto che si intervallano alla sequenza principale sospendendone e dilatandone gli esiti, con primi piani di Luther, l’hacker informatico che sta seguendo dalla sua consolle lo svolgersi della vicenda, di Franz che sta raccogliendo le forze per provare a risollevare l’agente Hunt e riportarlo in una zona di sicurezza, di Claire che ha drogato l’impiegato deputato all’utilizzo del computer, per consentire alla squadra di avere il tempo di agire nel caveau e, infine, dello stesso funzionario che fa in continuazione la spola verso il bagno per vomitare ma che potrebbe rientrare nel caveau da un momento all’altro.

Quando una goccia di sudore solca la fronte di Ethan Hunt, sospeso a pochi centimetri dal pavimento ormai da diversi minuti, andandosi a depositare sulle lenti degli occhiali, per quanto sappiamo perfettamente che quello che stiamo vedendo sia totalmente inverosimile e per quanto non ci sia nessuna possibilità di identificazione con un personaggio così sopra le righe e coinvolto in una situazione così assurda, tuttavia speriamo comunque che quella goccia di sudore non cada sul pavimento facendo scattare l’allarme, compromettendo inevitabilmente un piano così ben orchestrato.

Una sequenza di suspense purissima dunque, con invenzioni visive e sonore formidabili, e in cui, tuttavia, è evidente che non ci sia un briciolo della componente esistenziale che agisce nel modello hitchcockiano. Qui l’unico discrimine è che il piano riesca o non riesca, senza alcuna valutazione o giudizio morale né da parte dei personaggi né tantomeno da quella dello spettatore. In questo tipo di suspense quello che conta è che un’idea, in potenza molto ben congegnata ma complicata da realizzarsi, e che è già stata illustrata al pubblico attraverso dei falsi flash-forward tipici della saga di Mission Impossible, riesca ad assurgere allo stato di atto, di concretezza piena e risolta. In termini più rigorosamente aristotelici, se la semplice materia è potenza e la forma è atto, il mutamento (narrativo) è l’attuazione di ciò che è potenziale e la sua trasformazione in forma compiuta. Ecco che allora tutto quello che si frappone tra la potenzialità della materia e la sua piena conclusione, il suo completamento perfetto (entelechia), contribuisce a creare suspense, perché appunto si prospetta che la materia informe – e che tuttavia già possiede in nuce la potenza della perfezione – possa non diventare forma compiuta. In altre parole, temiamo che lo splendido piano non si riesca a realizzare.

Il “Plan/Heist” è la tipologia filmica dell’iper-programmazione, che in genere comprende narrazioni basate interamente o in gran parte su di un’azione caratterizzata da una progettualità ben definita e finalizzata a un obiettivo molto preciso. In questo genere di film ciò che conta davvero è il telos, il raggiungimento di un risultato, lo sguardo sul futuro, la prospettiva di qualcosa che non si è ancora realizzato. Una rapina in banca, dei documenti da recuperare, una persona da salvare o rapire, un’evasione agognata e pianificata da anni. Le situazioni narrative del Plan/Heist ruotano intorno a un repertorio di variazioni abbastanza limitato ma che riescono sempre a innescare una forte suspense proprio perché il rapporto potenza-atto/intenzione-risultato prefigura degli outcomes facilmente individuabili dallo spettatore, in genere irrobustiti da un timelock per cui, se la potenza non passa all’atto entro un certo periodo di tempo, la missione è destinata allo scacco e al fallimento.

In Mission Impossible, così come in genere in tutti quei racconti molto codificati da un punto di vista delle normative di genere e che presuppongono una confidenza dello spettatore con degli elementi narrativi ricorrenti (da James Bond alla saga di Bourne), è la costruzione dell’intrigo e della diegesi, piuttosto che la rappresentazione e la mimesi, a costituire l’asse portante su cui è costruito il film. È, infatti, la forma della diegesi che garantisce la rielaborazione del tempo e la realizzazione del divenire. Alla tradizione aristotelica, che privilegia la mimesi, la verosimiglianza e l’identificazione morale dello spettatore, in questi casi risulta preferibile la teoria platonica delle rilevanza prioritaria della diegesi sulla mimesi.

Del resto, il corpo attoriale di Tom Cruise, da sempre più algoritmo cibernetico che attore in carne e ossa (le sue performance sono quasi sempre sostenute e implementate dalla computer grafica), che interpreta personaggi con cui è molto difficile se non del tutto impossibile identificarsi, e la natura costitutivamente reboot di film come Mission Impossible – che tentano a ogni episodio un nuovo inizio, rilanciando su missioni sempre più inverosimilmente e dichiaratamente impossibili, ma senza mai presentare nulla di realmente nuovo e anzi muovendosi consapevolmente su un piano programmatico di totale prevedibilità – fanno di questo tipo di suspense, tutta schiacciata sul proprio funzionamento formale, un dispositivo emozionale che non punta lo spettatore, non lo cerca veramente: in questi casi la parte negativa della suspense, quella dello stordimento, dell’inquietante e dell’angoscia, non riuscirà mai a prendere realmente il sopravvento.

Ma va benissimo così perché, in questo capitolo come in quasi tutti i film successivi della saga, il meccanismo diegetico-narrativo è perfetto e il nostro godimento totale.

Articolo protocollato da Piero Tomaselli

Nato in provincia di Udine. Laureato in filosofia a Padova con una tesi sul rapporto tra poesia e nichilismo nel pensiero di Heidegger. Vive a Roma, dove nel 2003 si diploma in regia e sceneggiatura a Cinecittà.Insegnante di storia e filosofia al Liceo Peano di Roma, collabora con diverse scuole di cinema come docente di “estetica, narratologia e linguaggio delle immagini”. Tra i suoi lavori il mockumentary situazionista Simone Lecca e il Cinema (dell’) In-Visibile (2004-2009) con Enrico Ghezzi, Carlo Lizzani, Moni Ovadia, Luigi Di Gianni, Gianmarco Tognazzi, Andrea Diprè e Giuliano Montaldo e il mediometraggio Lintver (2006) con la colonna sonora di Elisa. È tra gli autori di Imago Mortis, opera prima di Stefano Bessoni con Geraldine Chaplin.Nel 2009 scrive e dirige il film indipendente Velma, girato in due sole settimane con un budget molto ridotto, tra i film più premiati dell’anno. Nel 2010 è invece il co-autore del montaggio del documentario The Earth: our home, scritto da Vincenzo Cerami e musicato da Ennio Morricone, film di montaggio che vince il Globo D’Oro 2011.Nel 2013 fonda il Cervignano Film Festival, il cinema del limite e del confine, kermesse cinematografica di cui è stato direttore fino al 2016.Ha condotto diversi seminari e laboratori sulle strutture narrative del thriller e del cinema di detection e nel 2016 pubblica Suspense! Il cinema della possibilità (Orthotes Editrice), con un approccio a metà strada tra filosofia e narratologia, libro/saggio sulle forme della suspense contemporanea, scritto a due mani con il filosofo Damiano Cantone.

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