Tornano Robicheaux e Purcel in una storia al limite dell’incredibile, architettata dal grande talento di James Lee Burke dal titolo quanto mai enigmatico, Una cattedrale privata (Jimenez).
Il Jack on the rocks con birra al seguito e una storia d’amore con lo stato della Louisiana, noto anche come la Grande Prostituta di Babilonia. Per me è sempre stata l’incarnazione di ogni vizio presente sul menu.
Cari avventori del Thriller Café, nessuno di noi è asceta o santo, non fosse altro perché un vizio ce l’abbiamo di sicuro, quello di leggere buone storie. Dunque, a seconda dei vostri gusti, iniziamo bevendo qualcosa di molto forte, perché la storia lo richiede.
Le famiglie Balangie e Shondell sono in perenne lotta da secoli nella contea di New Iberia, fin da quando un Balangie fu arso vivo, dopo essere stato inchiodato ad un palo. La perversione contemporanea non ha nulla da invidiare a quella arcaica: Isolde Balangie, innamorata corrisposta di Johnny Shondell, sta per essere rapita per essere venduta come schiava sessuale al perverso Mark Shondell.
Con l’intento di sventare questo perfido piano, Dave Robicheaux e Clete Purcel si troveranno a dover fronteggiare non solo grossi esponenti malavitosi ma anche un misterioso assassino, ingaggiato dall’amante della madre di Isolde, che è in realtà un perfido mafioso di New Orleans.
La linea tra in Bene e il Male per molti frangenti della storia è indistinguibile, anche perché questo sicario, che viaggia su una barca a vela che sembra materializzarsi dal nulla, ha la capacità di indurre incubi e allucinazioni nei due ex poliziotti.
La parabola umana che i due compiranno sarà dolorosa.
Per salvare i due innamorati dalle loro disumane famiglie, sia Dave che Clete dovranno affrontare i propri mostri che si chiamano alcool, stress post traumatico e solitudine, uscendo dalla propria cattedrale privata, il salvifico luogo dell’anima in cui si erano rintanati per sopravvivere, ma con la consapevolezza che potrebbero non farvi ritorno.
Ognuno di noi ha una cattedrale privata che si guadagna, un posto speciale a cui ritorna quando il mondo prima o poi diventa troppo, e smarrimento e disperazione vengono con il sorgere del sole. Per me era quel piccolo banco di fango secco su cui mi trovavo adesso, con la marea che mi guizzava davanti e le anatre che mormoravano e arruffavano le penne tra la tifa e il bambù semisommerso.
Anche in questo affresco che gronda sangue rituale e dolore, l’acqua la fa da protagonista. Ho ampiamente parlato della valenza dell’elemento acqua nella prosa di Burke (v. Gesù nell’uragano) e che ritorna anche nel più potente New Iberia Blues. In Una cattedrale privata addirittura lo scontro finale tra le forze del bene e del male si svolge in mezzo al mare, tra gli occupanti di un’imbarcazione moderna che riceve l’abbordaggio di un vascello a vele spiegate. Un vascello fantasma, di piratesca memoria, che forse isserà vele bianche, recando una lietissima novella. O forse no.
La scrittura di Burke mi risulta tanto accattivante per un motivo semplicissimo: mi conduce sempre in un’altra dimensione o in un altro tempo, rispetto all’azione narrata. Anche quando i due protagonisti sono al culmine di uno scontro a fuoco mortale, Burke è abile nel sublimare quel momento non rendendolo mai banale, introducendo riflessioni o flashback che i protagonisti, nonostante l’adrenalina (o forse proprio per quella) visualizzano. A volte sembra quasi che Robicheaux, pensandosi spacciato, si abbandoni a corpo morto al flusso della vita, un attimo prima di essere risucchiato dal gorgo delle anime perdute.
C’è molto di medievale in questa visione manichea del netto bene contro il netto male e non è peregrino, secondo me, paragonare la potenza di alcuni gironi danteschi con il bajou, quindi con la natura stessa dei luoghi, matrigna mai madre per gli abitanti della Louisiana.
La verità è che volevo che il mondo fosse incantato, pieno di misteri e voli di fantasia. Perché? Perché con questa convinzione diventiamo parte integrante della creazione, ne siamo partecipi, una particella vivente all’interno dell’infinito. Rimaniamo al cospetto dei cavalieri di Carlo Magno che scampanellano sulla strada per Roncisvalle; rifuggiamo la mediocrità e la prevedibilità, e ci rallegriamo del sorgere e del tramontare del sole e non temiamo più la morte, perché la terra resta sempre la stessa.
Un altro aggettivo che uso spesso è “dolente” per sottolineare l’animo del protagonista perché il dolere latino, nella sua forma intransitiva e nel significato di “rattristarsi” o “rammaricarsi” è più attinente al personaggio Robicheaux che, come tutti noi, vive la vita d’impeto e senza fermarsi troppo sui dolori del passato che, altrimenti, gli aprirebbero un abisso sotto i piedi all’istante facendolo sprofondare, ma che dà il meglio della sua umanità quando si ferma a rammaricarsi sulle cose non fatte per aggiustare situazioni della propria vita o a rattristarsi per tutti gli affetti che ha perduto.
Dopo che hai superato la lunga notte dell’anima, o dopo che essa ha finito con te, non sei più lo stesso. Le paure terrene scompaiono come un grosso peso tolto dalla bilancia. Non sei più incline a litigare o a serbare rancore; la riservatezza diventa uno stile di vita; hai difficoltà a restare sveglio durante una conversazione ordinaria. Il lato negativo è che sei solo, sei l’unico occupante di una cattedrale di cui puoi sentire il battito del tuo cuore rimbalzare sulle pareti.
La potenza di Burke è proprio nell’aver dipinto il suo protagonista nella forma più comune di essere umano, con le proprie paure, le insicurezze, i dolori e i rimpianti di chi ha vissuto una vita difficoltosa e si ritrova solo negli affetti. L’unica certezza granitica, però, è quello di aver fatto tutto a fin di bene, anzi nel segno del Bene supremo. Il ché non si riduce a una visione religiosa dell’esistenza, bensì etica.
L’umorismo sarcastico di Burke, invero, aiuta molto a spezzare la tensione di alcune parti:
In ogni caso, penso che avesse capito che stava per fare la Grande Uscita e forse cercava le parole per accomiatarsi con un po’ di buonumore, magari con parole come “Ben fatto, ragazzo. Bacia le signore da parte mia e versa un toddy sulla mia bara”. Troppo romantico? Sì, forse. Ma assistere a una morte violenta può rovinarti il pranzo, soprattutto se partecipi.
Marcel LaForchette riteneva che Shondell fosse in combutta con forze diaboliche. Io non so se esistano cose del genere.
Ma sono convinto che tra di noi ci siano persone che desiderano ridurre il mondo a un camposanto, e le loro motivazioni potrebbero non essere più complesse di quelle di un neonato arrabbiato che lancia la cacca perché viene lasciato regolarmente con il pannolino sporco.
In quell’altra epoca, l’America era ancora l’America, nel bene e nel male. Erano presidenti uomini come Harry Truman e Dwight Eisenhower; non assistevamo quotidianamente all’arrivo del carro dei pagliacci. Alcuni potrebbero dire che è solo nostalgia. Si sbagliano. Per noi, in Louisiana, era un’epoca di musica e drive-in e cieli stellati e strade a due corsie che si snodavano per chilometri tra prati e querce fitte di muschio spagnolo. Se non mi credete, chiedete al mio amico Clete Purcel. Lui vi dirà tutto.
“C’è puzza di mangiaspaghetti, dappertutto, su questa faccenda. Non ti avvicinare. E non guardarmi in questo modo. Mangiaspaghetti non è un insulto razziale. Ѐ uno stato mentale. L’unico uomo che abbia mai avuto la meglio su un Balangie è stato Mussolini. Gli ha strappato le unghie”.
Ops, ci siamo anche noi, i mangiaspaghetti…
Who is who?
Come per l’altra volta, vi rimando alla biografia di James Lee Burke, pubblicata sul nostro sito, a firma di Alessandro Bullo.
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Articolo protocollato da Monica Bartolini
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