Un treno di lusso, un gruppo di viaggiatori notabili, un’indagine per omicidio. Ma non è il celeberrimo Orient Express di Agatha Christie e l’azione non si svolge nei Balcani. L’ambientazione è la parte più remota della remota Australia, cioè non quella stranota delle grandi città ma quella desertica che riempie – si fa per dire – la sconfinata cornice costituita dalle coste australiane. Il treno è il Ghan, che collega Adelaide con Darwin, attraversando appunto il paese-continente quasi come un meridiano. Se treno e luoghi sono particolari, particolarissimi sono i personaggi che danno vita alla storia: scrittori delle diverse tipologie di gialli, riuniti nella insolita location per il Festival Australiano del Giallo. Quanto all’indagine, non è condotta da un super investigatore come Hercules Poirot, ma dalla voce narrante, scrittore anche lui e che a dire il vero più che narrare, “parla” al lettore, facendo notare particolari e comportamenti che finiscono con l’essere un po’ come i puntini neri da unire delle riviste di giochi da relax. L’immagine che risulta è poi la soluzione del caso. Ma non è tutto.

Se le montagne balcaniche della Christie sono testimoni di un omicidio, l’affascinante (così racconta il libro…) deserto australiano assiste a due omicidi, a una terza morte violenta e a tentativi di ammazzamenti. Tutto ciò avvolto in un bozzolo di profili umani e personalità letterarie intrecciati in una storia che ha il suo bandolo molto lontano nel tempo e le sue radici in qualcosa assolutamente non letterario o editoriale. Qualcosa che qui non è citabile per ovvie ragioni “antispoileraggio”.

Il quadro così mirato e selezionato, con ricche descrizioni di schermaglie polemiche, invidie da prime donne (magari sedicenti) e autentici odi, costituisce un libro nel libro. Nel senso che la vicenda gialla si abbina a una sorta di saggio sulla letteratura, sull’editoria, sul giallo, ben vivisezionato nei suoi sottogeneri. La cosa è resa evidente dalla stessa struttura del romanzo: la numerazione delle pagine arriva alla numero 360 mentre il primo morto lo si incontra a pagina 139. Tanto? Poco, no di sicuro.

Ma come spesso succede, i numeri non la dicono tutta. Le quattordici decine di pagine dei primi capitoli non si limitano soltanto alla descrizione dei personaggi, del treno, del paesaggio che proustianamente scorre sullo “schermo” del finestrino. O meglio, questi elementi ci sono, e anche presentati sontuosamente, ma sono utilizzati come canovaccio da infiocchettare con una pirotecnia di gag e battute. E (a chi non è “informato sui fatti”) non paia un’esagerazione: con il fratello gemello l’autore è una star assoluta della tv e dei teatri australiani.

Se poi si considera che la vena comica trova modo di scoppiettare nell’ambiente letterario-editoriale, con specifico riferimento al mondo del giallo ecco che “Tutti su questo treno sono sospetti” può anche essere percepito come una attenta e argomentata disamina del lavoro di chi scrive, di chi edita, di chi promuove letteratura di genere poliziesco. Del resto la cosa è una sorta di sequel del precedente romanzo di Benjamin StevensonTutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”, che appunto è una sorta di compendio di rimandi al Gotha della letteratura gialla.

Il citato avvio (tardivo) del racconto thriller non rappresenta soltanto uno spartiacque nella narrazione tra saggio editoriale in salsa comica da una parte, e vicenda suspense dall’altra. Dopo l’incontro con il primo morto, il ritmo prosegue immutato ancora per qualche decina di pagine, poi si ha l’impressione che l’autore abbia scalato una marcia e cominciato a pestare sull’acceleratore dell’intreccio giallo, della suspense, del thriller.

Il risultato è che se nella prima parte l’occasione per una risata è sempre lì, da cogliere quasi in ogni pagina, nella seconda parte l’attenzione è tutta assorbita dalla vicenda, che pone interrogativi in continuazione; arrivando anche a includere scene d’azione che paiono fatte apposta per la Hollywood di Tom Cruise. Così, se i primi capitoli sono facilmente immaginabili come lettura con bicchiere di cocktail da spiaggia in mano, per il secondo blocco è opportuna, anzi necessaria, una lettura molto attenta, dando anche per scontata la opportunità di qualche rilettura di capoverso per non perdere il filo del racconto. Insomma, il rischio incasinamento è incombente.

Va comunque detto che la scrittura di Stevenson è ben scorrevole e accattivante, rendendo recepibile anche nelle altre lingue i tanti lazzi e frizzi “british” presenti. Una cosa assolutamente mai scontata. Evidentemente in ciò conta il lavoro della traduttrice, Elena Cantoni. Non mancano comunque curiosità in materia di traduzione. Per esempio, come nella versione italiana possa nascere l’espressione “non mi ha mai chiesto di dargli del tu”, quando notoriamente in inglese esiste la seconda persona “you” che vale per tutti. Altro dettaglio lessicale riguarda la definizione del rumore del treno: nelle pagine del romanzo viene definito “clangore”, mentre il rumore di una forchetta posata bruscamente contro altre posate è “sferragliare”. I dizionari dicono cose diverse. Le piccolezze fanno poi tris con un ripetitivo uso dell’espressione “posto che…”, che nelle prime pagine del libro ricorre parecchie volte, fino se non a infastidire, certo a farsi notare, come succede nelle premesse di decreti o sentenze giudiziarie.  

Recensione di Franco Fiorucci.

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Tutti su questo treno sono sospetti
  • Stevenson, Benjamin (Autore)

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