La polizia di Los Angeles ha deciso di riaprire l’unità Casi Freddi e l’ha affidata a Renée Ballard. Si apre così l’ultimo thriller di Michael Connelly, intitolato “La stella del deserto”, pubblicato da Piemme e tradotto per noi da Alfredo Colitto. La Ballard ha costruito una piccola squadra nella quale non ha potuto fare a meno di inserire Harry Bosch, ormai in pensione da anni, ma con il quale ha vissuto momenti memorabili della sua carriera e che stima profondamente, pur conoscendone i molti difetti. Connelly decide quindi di regalarci un’altra avventura del duo che era stato protagonista delle opere degli ultimi anni. E lo fa tirando in ballo il passato, le sfide sospese, i casi non risolti.

In particolare, l’intreccio ruota intorno a due vicende, lo sterminio della famiglia Gallagher avvenuto quasi dieci anni prima, rispetto al quale Bosch sa chi è il colpevole, ma non ha le prove per incolparlo, e un delitto a sfondo sessuale al quale sono interessati i vertici della politica locale, che si sussurra abbiano riaperto appositamente l’unita Casi Freddi. Sono due casi per i quali contesto, moventi, esecuzioni sono stati profondamente diversi, ma che hanno un punto in comune: la necessità di riesaminare la documentazione esistente (la biblioteca delle anime perse come la chiama Bosch), vedendola con occhio critico, da angolature differenti, senza le tare mentali che forse i detective originari avevano avuto. In più, la scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante e forse ciò che dieci o quindici anni prima non era stato possibile in termini di analisi delle prove, oggi invece lo è e qualcosa potrà essere risolto.

Il riferimento alle anime perse ci fa pensare a qualcosa che è sospeso in una sorta di limbo. Al senso di giustizia non appagato, alla vita misera di famiglie che non hanno più i loro cari e che non hanno potuto elaborare il lutto perché manca una vera ricostruzione di quanto successo. Connelly affronta questo tema con grazia e compassione, da maestro assoluto quale è. Senza tuttavia rinunciare ai suoi ritmi incalzanti, ai dialoghi serrati costruiti in modo impeccabile, a un crescendo di suspense che quasi consuma il lettore. Ma se la colonna sonora de “Le ore più buie” era a ritmo di rap, in quest’opera le numerose citazioni musicali sono tutte per brani struggenti, dove il soul la fa da padrone, le atmosfere sono più languide e tristi. Esemplare in questo senso la riscoperta di King Curtis che suona al sax “Whiter shade of pale” dei Procol Harum. Brani del passato quindi, un passato che torna a tormentarci spesso ferendoci, un passato che fugge veloce.

Il Bosch de “La stella del deserto” è sempre più irregolare, insofferente delle regole, disilluso. Ma conserva la sua passione sfrenata per l’indagine, l’amore per la giustizia, il fiuto di chi sente come vanno le cose affidandosi al proprio istinto, ma mai irrispettoso per la scienza forense, che Ballard e Bosch invece quasi venerano. Un Bosch che colpisce senza pietà chi adotta pratiche esoteriche, come la collega dell’unità Colleen Hatteras, che talvolta sembra affidarsi al culto del paranormale. Perennemente sull’orlo di abbandonare definitivamente ogni indagine, ma in fondo mai sazio e sempre assetato di giustizia. Sullo sfondo la Los Angeles che Connelly ama e conosce a menadito. Che sa dipingere nei suoi tratti migliori, perché per Connelly i detective devono “dominare” il territorio, ascoltarlo, immergersi nelle sue pieghe, esaltarsi con le sue ricchezze. Come quelle naturali che riserva il paesaggio intorno alla città degli angeli, dai parchi urbani al deserto.

Ed è proprio nel vuoto arido delle zone secche della Valley che cresce “La stella del deserto”, un fiore delicato e chiaro che si fa beffe della mancanza d’acqua. Ci ricorda che anche nei luoghi più impensabili e inospitali, come la tomba dei Gallagher nel deserto, si possono trovare cose belle che ci sorprendono. Sono le cose che ci aiutano a capire che quando tutto sembra perduto, la speranza può rinascere quando meno te l’aspetti.

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Articolo protocollato da Giuliano Muzio

Sono un fisico nato nel 1968 che lavora in un centro di ricerca. Fin da piccolo lettore compulsivo di tante cose, con una passione particolare per il giallo, il noir e il poliziesco, che vedo anche al cinema e in tv in serie e film. Quando non lavoro e non leggo mi piace giocare a scacchi e fare attività sportiva. Quando l'età me lo permetteva giocavo a pallanuoto, ora nuoto e cammino in montagna. Vizio più difficile da estirpare: la buona cucina e il buon vino. Sogno nel cassetto un po' egoista: trasmettere ai figli le mie passioni.

Giuliano Muzio ha scritto 144 articoli: