Dopo aver recensito di recente il suo romanzo Non mi toccare, al Thriller Café ospitiamo oggi Massimo Tallone per una interessante intervista. Qui quanto ci siamo detti…

[D]: Ciao Massimo, benvenuto al Thriller Café. Prima domanda di rito: chi è Massimo Tallone nella vita e come scrittore?
[R]: Domanda impegnativa. Poiché scrivere occupa gran parte della mia vita (mai meno di otto-dieci ore al giorno, sempre, feste comprese), la mia vita coincide con quella dello scrittore. All’ora dell’aperitivo, però Hyde diventa Jekyll: esco dall’ombra e dalle perversioni della sintassi, e divento socievole, complice un bicchiere…
[D]: Proprio in questi giorni le edizioni del Capricorno hanno pubblicato il tuo romanzo “Il fantasma di Piazza Statuto”. Raccontaci qualcosa…
[R]: Il romanzo era uscito nel 2012 con le edizioni e/o e andò rapidamente esaurito. Non fu più ripubblicato. Ora, tornati a me i diritti, ho accettato la proposta di riedizione da parte di Capricorno, per una uscita nelle edicole del Piemonte, in abbinamento con La Stampa. Per l’occasione, ho reinserito nel testo i piemontesismi che nella edizione precedente erano stati sostituiti. Sul piano affettivo, è fra i romanzi che amo di più, della mia produzione, perché è uno di quelli in cui ho tentato il maggior numero di sfide…
[D]: Torino è lo sfondo di questa tua storia… è davvero magica come dicono?
[R]: Sono sempre stato allergico a questa ridicola definizione. Il folklore stantio della Torino magica è stucchevole come quello della Napoli pizza e mandolino. Credo di aver scritto “Il fantasma”, tra le altre cose, per ridere di questi stereotipi polverosi.
[D]: Nel corso degli anni, i tuoi romanzi hanno dato vita a molti personaggi… Ce n’è uno (o una) a cui sei particolarmente affezionato?
[R]: Non so rispondere a questa domanda. Una madre con quattro figli forse sa quale preferisce, ma non lo direbbe mai, credo. Oppure, è come chiedere quale dito della mano ti taglieresti… Tutti i miei personaggi sono autonomi, vivi e veri, e al tempo stesso sono parti di me.
La sola idea di una gerarchia, di una preferenza, pone i personaggi dentro una curva di gradimento definita da parametri rigidi. Ma quella curva presuppone una visione distorta e limitata dell’esistenza, vincolata ai miei parametri di giudizio. Nulla, di ciò che è umano, dovrebbe essere rinchiuso in una etichetta, perché si rischia di mettere un recinto alla smisurata policromia dell’essere. Nel momento stesso in cui mi accorgessi di preferire un personaggio rispetto a un altro, mi accuserei di faciloneria, di restringimento mentale. Ciò che è misurabile si allontana dalla vita, per come la vedo io, e presuppone una tendenza a etichettare che io combatto in me stesso per primo.
[D]: Sei uno dei padri fondatori di Torinoir. Che cos’è questo collettivo?
[R]: Torinoir è il collettivo di autori torinesi di gialli e noir fondato da Giorgio Ballario nel 2014. Il nostro progetto è quello di narrare la città e i suoi mutamenti, o le sue caratteristiche, con l’occhio del giallo e del noir. Siamo molto diversi, tra di noi, e al tempo stesso aggregati (nessuno è astemio, per esempio). Questo mix di diversità e convergenza ha reso interessante il lavoro, culminato con antologie che hanno avuto buoni risultati, con collaborazioni verso istituzioni ed enti, con festival innovativi, ferma restando l’autonomia editoriale di ogni autore.
[D]: Non solo gialli: hai all’attivo anche alcuni saggi che esplorano il potere delle parole, che possono servire per curarci ma anche per difenderci…
[R]: Proprio per la mia allergia a ogni forma di etichetta (le etichette sono utili per il mercato, ma sono camicie di forza, per me) ho sempre liberato le mie spinte espressive, da quella umoristica a quella saggistica, a volte unendole. Ne sono nati i saggi “A bottega dal maestro di cazzeggio”, sull’arte della conversazione, e “Bartleby mi ha salvato la vita”, sulla funzione salvifica dei classici, entrambi per le edizioni Buendia Books; il saggio “Parole, non fatti”, scritto con Giorgo Fattor, per Golem edizioni, sulle tecniche di autodifesa verbale. E sto scrivendo proprio in questi giorni di clausura forzata, per sfida a me stesso (cento pagine in sette giorni), il saggio umoristico “Fenomenologia del corridoio”. L’obiettivo, sia per i saggi sia per i romanzi, è quello a cui hai accennato: le parole sono tutto. Le parole permettono di distinguere e di riconoscere. Sono la vita, generano il pensiero, guidano nel buio e illuminano il sentiero, proteggono dalle certezze e inducono ad andare oltre, a non fermarsi alle semplificazioni, ai pregiudizi. L’innocenza è pericolosa e favorisce il male, ha scritto Hillman. Le parole ci salvano.
[D]: Che consigli daresti a chi voglia cimentarsi con la scrittura di un noir?
[R]: Scrivere un noir è solo un ramo della più ampia categoria che è lo scrivere. Non credo di poter dare consigli, ma so che cosa funziona per me. Scrivere, soprattutto all’inizio, ha sempre voluto dire, per me, imparare a morire, a non esistere, a non avere emozioni, a restare distaccato e freddo, lontano dal mondo, concentrato in modo totale sull’opera, la struttura da darle, la traccia iniziale, l’allestimento del piano, la stesura, l’attenzione alla frase, al ritmo, alla fluidità. In breve: leggere molto, scrivere il triplo, stare alla larga dall’umanità, ridere e scherzare dopo le 18.
[D]: Quali sono i tuoi autori di riferimento?
[R]: Da sempre, i miei riferimenti sono i classici, antichi e moderni, intendendo con questa ampia formula anche gli autori del Novecento celebrati come tali, e penso a Nabokov, per esempio. Ma il Cardo, non lo diresti mai, nasce da Eraclito e dal suo “lathe biosas”, vivi nascosto, intrecciato con Rabelais. Tutti i miei romanzi, struttura, stile, trama, personaggi, sono apparsi sullo sfondo di grandi classici.
[D]: Quali i nuovi progetti in cantiere?
Il mio cantiere è di quelli multipli. Ho sempe più lavori aperti. Sto chiudendo un romanzo noir di ampio respiro, una biografia e ho in corso il saggio sul corridoio.
[D]: Se c’è qualcos’altro che vuoi dire, questo è il momento.
[R]: Vorrei dire, e potrebbe essere un invito narrativo, che da sempre gli esseri umani litigano fra loro. Litigano i fratelli (a partire da Caino e Abele), litigano i parenti, litigano i soci e si scannano in tribunale, si litiga in condominio, litigano le generazioni, litigano le borgate, le tifoserie, le fazioni partitiche, litigano le città e gli stati. Nessun patto è mai durato, perché qualcuno, prima o poi, si sente scavalcato e manda tutto in rovina. Tutto ciò è ovvio, lo so, ma andrebbe ricordato quando si decide di credere infantilmente ai complotti. Per vasti che siano gli interessi in campo (governare il mondo! Bum!) anche lì ci sarebbe senza dubbio qualcuno più avido e qualcuno che si sente derubato, che farà saltare il banco. Non si tratta di dubitare, si tratta di ragionare a partire dall’umano.
[D]: Grazie per essere stato ospite al Thriller Café; speriamo di rivederti presto.
[R]: Grazie a te e a Thriller Café. Alla prossima.

Foto di Massimo Tallone tratta da https://www.massimotallone.it/

Articolo protocollato da Gian Mario Mollar

Classe 1982, laureato in filosofia, Gian Mario Mollar è da sempre un lettore onnivoro e appassionato. Collabora con siti e riviste di ambito western e di recente ha pubblicato I misteri del Far West per le Edizioni il Punto d’Incontro. Lavora nell’ambito dei veicoli storici e, quando non legge, pesca o arranca su sentieri di montagna.

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