Oggi per Thriller Café Manuela Maccanti intervista Marco De Franchi, di cui abbiamo in precedenza recensito Il Maestro dei sogni.

Qui a seguire potete leggere la loro conversazione…

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Ciao Marco, innanzitutto devo farti i miei complimenti perché, in nemmeno due anni, hai pubblicato La condanna dei viventi e Il Maestro dei sogni, entrambi editi Longanesi, che si sono rivelati due grandissimi successi editoriali.

[MM] Come prima domanda, citando proprio il tuo nuovo e avvincente thriller, ti ritieni più un “Maestro dei sogni” o un “Maestro di… sogni”?

[MDF] Né l’uno né l’altro. In realtà sognare è soltanto il principio di qualsiasi progetto di vita, ma poi quello che fa la differenza è il lavoro duro, la costanza, la disciplina, la caparbietà unita a un profondo senso del sé. Bisogna credere a quello che si fa (o a quello che si sogna, scegli tu) ma anche mantenere un certo senso critico verso se stessi. Per me così è stato per la scrittura. I “sogni” (e gli incubi) li lascio dunque ai miei personaggi… e ai lettori.

[MM] Durante la lettura, in più di un’occasione, mi sono trovata a interrogarmi su quanto sia esile il confine tra scrittore e personaggio, tra finzione e realtà. Pirandello sosteneva che fossero i personaggi a bussare alla sua porta. E i tuoi? Sei sempre stato tu, scrittore, ad avere il controllo sulla storia o, a un certo punto, è la narrazione che ha preso il sopravvento e ti ha traghettato verso il finale rendendotene spettatore, come lo siamo noi oggi che ti leggiamo?

[MDF] La costruzione, direi la creazione, dei personaggi è sempre stato un punto fondamentale delle mie storie ma credo lo siano per ogni romanzo che si rispetti. Ed è un processo davvero suggestivo oltre che poco comprensibile. La scintilla iniziale è certamente frutto della mente dello scrittore, ma quello che accade dopo è un mistero. Hai ragione, i personaggi, quelli più riusciti, difficilmente assecondano i tuoi piani (almeno non tutti) e spesso partono per tangenti che neanche avevi previsto. Io penso ci sia un po’ di lavoro inconscio dell’autore, ma non ne sono sicuro. È comunque divertente immaginare un personaggio e la sua storia e poi vedere che cosa accade.

[MM] Si sa, è sempre più semplice descrivere la serenità che la sofferenza. I tuoi personaggi (la protagonista, la giovane commissario Valentina Medici, il vicequestore in quiescenza Fabio Costa, Gabriele Piovesan e potrei citarne altri), sono tutti spaccati, ammaccati nel profondo. Rotti.

[MDF] Quanto è stato difficile, per te che li hai creati, immedesimarti nei loro tormenti, nelle loro oscurità? E, soprattutto, a fine stesura, uscirne fuori illeso e col giusto distacco, senza trascinarti addosso le loro pene?

[MDF] Un po’’’ è mestiere, devo confessarlo. Si dice che devi far soffrire i tuoi personaggi, devi fare in modo che sia proprio la loro sofferenza a spingerli ad agire. Detto questo non è mai facile descrivere il dolore, le ferite, le contraddizioni e tutto l’armamentario senza lasciarci un po’ della tua anima. Se non provi nulla per quello che accade alle tue creature il risultato sarà quantomeno modesto. Quando scrivi devi soffrire anche tu. Uscirne dopo? Basta spegnere il computer… o voltare pagina. Lo scrittore deve sapere quando è il momento di tornare alla realtà.

[MM] Secondo Henry Miller un narratore dovrebbe iniziare a scrivere in tarda età dopo aver attraversato un percorso di maturazione narrativa. Altrimenti si limiterà a copiare gli scritti degli altri e i suoi diventeranno libri che imitano altri libri.

Sei d’accordo con questa affermazione?

[MDF] Non sempre, con tutto il rispetto. Fa il paio con quella che vuole che uno scrittore parli solo di cose che ha conosciuto personalmente. Se fosse così non esisterebbero milioni di splendidi romanzi di genere. Forse è vero che una certa maturità è importante per affrontare certi temi, ma con quale risultato? Io riscriverei oggi storie che ho buttato sulla carta venti o trent’anni fa e lo farei con maggiore consapevolezza, con una sensibilità e un bagaglio di esperienze certamente diverse. Ma chi può dire se lo saprei fare meglio?

[MM] Chi scrive si prende dei rischi in quanto, nelle storie che racconta, mette inevitabilmente qualcosa di se stesso. Marco De Franchi quanto ha messo in gioco di sé nel Maestro dei sogni?

[MDF] Be’, tu lo sai, c’è sempre un po’ di te nelle storie che scrivi e nei personaggi che fai agire. Però credo sia un processo implicito e in qualche modo incontrollabile. Non sai quanto ci sarà di te in ciò che scrivi finché non avrai finito. E anche allora, spesso, non te ne renderai conto. Servono gli altri per fartelo scoprire. La cosa importante è l’autenticità perché è quella che arriva al lettore. Se fingi troppo distacco se ne accorge. E la sincerità fa sempre un po’ male, soprattutto a te che la pratichi.

[MM] La tua penna è cruda e incisiva. Chi sono i tuoi punti di riferimento letterari?

[MDF] Sono tanti e non tutti appartenenti al genere. Per restare però nel campo direi che due autori mi hanno sempre ispirato dal punto di vista stilistico e sono pure molto differenti uno dall’altro: Thomas Harris e James Ellroy. Ma potrei citare l’ineffabile (e forse scontato) Stephen King. In Italia apprezzo molto Lucarelli, Simi, Dazieri, Carrisi e…. vabbè, la lista è lunga qui.

[MM] La massima di Gide per il quale per fare buona letteratura occorrono cattivi sentimenti (e, aggiungo io, cattivi personaggi) sembra calzarti a pennello. Nel Maestro dei sogni, di cosiddetti villain, ne incontriamo più di uno. Manipolatori senza scrupoli che fanno leva sulle fragilità altrui. Secondo te, perché subiamo, in qualche modo, la fascinazione per la crudeltà più abietta? Perché ci attrae tanto scendere nei “sottosuoli umani”, per dirla alla Dostoevskij?

[MDF] La risposta più semplice e forse più banale è quella che secondo me rende meglio l’idea: perché ci riconosciamo più nei cattivi sentimenti che in quelli buoni. Perché la parte più nascosta di noi (ma spesso la più autentica) ci sussurra cose che non vorremmo sentire ma che non possiamo ignorare. Questo non vuole dire che siamo tutti dei potenziali serial killer, ma i serial killer non sono così differenti da noi. Loro hanno semplicemente deciso di ascoltare quella vocina che noi teniamo chiusa nello scantinato della nostra mente.

[MM] Il libro ha svariate ambientazioni e contesti suggestivi, dal nord al sud dell’Italia, ma quello che più mi ha colpita, e che tu sei riuscito a rendere magnificamente, è il manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, l’ultimissimo a essere chiuso dalla legge Basaglia. Perché l’hai scelto come sfondo, principale, alla tua storia?

[MDF] Mi ci sono imbattuto casualmente (anche se da romano lo conoscevo) facendo ricerche su manicomi e malattie della mente. È un luogo colmo di suggestioni che non serve essere un grande scrittore per descrivere, lo fa da sé. Quando sono andato a visitarlo con in mente la mia storia sono rimasto folgorato. Non potevo non ambientarci una scena. Se il mio fosse stato un film, come si dice: una location così era imperdibile. Detto questo è un luogo colmo di storia e di sofferenza che invito tutti a conoscere.

[MM] Parliamo di Valentina Medici, forte e fragile al contempo, nonché protagonista del Maestro dei Sogni. Come ne hai scelto il nome, il carattere, la “missione”, le gabbie e i nemici da cui fugge? E per te, Marco De Franchi scrittore, qual è l’avversario più temibile? 

[MDF] I nomi dei personaggi nei miei romanzi mi vengono senza troppe elucubrazioni. Valentina era, casualmente perché non ha nessuna attinenza con il personaggio, il nome della dirigente di una squadra mobile che conoscevo in quel momento e mi sembrava sufficientemente evocativo. Come ho detto spesso in Valentina Medici ho assommato un po’ tutte le donne investigatrici che ho conosciuto nella mia carriera da sbirro, con la loro forza e la loro fragilità (molto meno fragili di tanti poliziotti uomini, devo dire). Ho poi aggiunto qualcosa di personale e in particolare la paura di non essere all’altezza del compito da svolgere, un po’ di quella sindrome dell’impostore di cui soffro anche io. Il resto, come ho detto prima e come tu giustamente hai rilevato, lo ha fatto tutto lei.

[MM] Una domanda che non ti hanno mai fatto e a cui tanto avresti desiderato rispondere.

[MDF] La domanda è: scriverai mai qualcosa di diverso da un thriller? La risposta: Sì. Ma non so cosa.

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Articolo protocollato da Manuela Maccanti

Manuela Maccanti vive a Fucecchio, in provincia di Firenze. Nata nel 1977, è laureata in Lingue e letterature straniere e ha un passato da giornalista per Il Tirreno. Dopo aver frequentato laboratori di scrittura creativa, nel 2021 si iscrive alla scuola Saper Scrivere e diventa editor e correttore di bozze. Finalista in vari concorsi letterari nazionali e pubblicata su antologie di poesie e racconti (Silvio Ulivelli Edizioni, Raffaelli Editore, Delos Books, Writers Magazine Italia, Algra Editore), nel 2021 esce il suo primo romanzo, "Lo stoppino e la candela", Capponi Editore. Appassionata di arte, di Hitchcock, della mente umana e del mistero in tutte le sue sfaccettature (gialli, thriller, noir) nel 2023 pubblica il suo primo thriller psicologico, "Cella numero ventitré", edito da Sette Chiavi (finalista al "Garfagnana in Giallo" 2024 e menzione speciale per il miglior protagonista). La sua frase preferita è: «Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso».

Manuela Maccanti ha scritto 8 articoli: