La cattiva strada - Simone SarassoSimone Sarasso, autore classe ’78 già noto per diversi romanzi storici di successo come “Colosseum” o “Aeneas”, ma anche finalista al premio Scerbanenco 2007 con l’affresco noir “Confine di Stato” (una sorta di italian tabloid per gli anni ’50, ’60 e ‘70, alla maniera di Ellroy) ci porta con il suo La cattiva strada nell’America degli inizi del secolo scorso.

Non facciamo conoscenza soltanto con un luogo geografico e con un momento nella storia, quanto piuttosto con un nuovo modo di vedere il mondo: un diverso sguardo su una realtà di cui si abbraccia anche l’aspetto più crudo e spietato. I giovanissimi protagonisti, malgrado le loro misere condizioni di partenza, vanno incontro al futuro con speranza (forse anche troppa), per certi versi persino con una certa dose d’ingenuità. Per inseguire questa speranza però, il loro agire saprà farsi sempre più cinico, fino alla violenza.

Ed è proprio con la violenza che i quattro emigranti al centro della vicenda cercano di colmare la distanza che li separa da un sogno, che sembra farsi miraggio, di ricchezza e di benessere. Al centro della scena Salvatore Lucania (che cambierà poi nome in Charlie e, più tardi, in Lucky Luciano), Ben (più avanti sarà noto come Bugsy) Siegel, Meyer Lansky e Frank Costello.

Tra qualche decennio, i loro nomi saranno pronunciati con timore: diventeranno quattro pericolosi gangster. In questo romanzo però, sono ancora poco più che adolescenti, e dei ragazzi hanno ancora qualcosa, anche se stanno già sviluppando, con impressionante rapidità, una ruvida scorza, complice anche l’incalzante necessità di compiere scelte dolorose.

Il libro si divide in scene, non in capitoli: come a voler sottolineare, in consonanza con lo stile secco e asciutto, che questo romanzo somiglia (e non solo da un punto di vista stilistico-formale, anche nel ritmo della narrazione) a un’azzeccata sceneggiatura.

Tornano in mente talvolta le scene più rabbiose di “C’era una volta in America”, capolavoro di Sergio Leone che fotografa il Nuovo Continente dagli anni ’20 agli anni ‘60: anche “La cattiva strada”, sia pure restando più lontano nel tempo, si muove all’interno di una simile atmosfera. Il crimine come fuga dalla miseria, come sodalizio, in qualche modo tra pari, come maledetta eppure seducente via di riscatto, almeno fino a quando si riesce a stare sulla cresta dell’onda.

Manca però un personaggio come Noodles (che ha avuto il volto di Robert De Niro) o come il Freddo tratteggiato da De Cataldo in “Romanzo criminale”, in questo caso sullo sfondo della Roma degli anni ’70 e ’80. Un bandito che, a suo modo, rispetti un proprio codice di comportamento, sia pur non coincidente con la legge. Qualcuno che sappia rispondere, proprio come Noodles all’amico Max (che lo ha tradito) voltandogli semplicemente le spalle, ora che lo ha ritrovato ricco e braccato: non è il suo modo di vendicarsi, ma, come afferma egli stesso, soltanto il suo modo di vedere le cose.

L’unica legge a cui sembrano invece essere interessati Salvatore, Ben, Meyer e Frank è quella del più forte: per questo che finiscono per legarsi, più che per portare avanti un comune progetto (come invece cerca di fare ad esempio il Libanese tratteggiato da De Cataldo, con la sua decisione di dividere gli utili degli affari illegali in parti uguali tra gli appartenenti alla banda: la “stecca para”).

Non c’è tempo, non c’è spazio neppure per questo tipo di codice individuale o di slancio per chi, come Salvatore, dopo aver visto la Statua della Libertà arrivando in nave, si trova prima di tutto costretto a una lunga e difficile tappa forzata a Ellis Island, per le visite mediche e per debellare il vaiolo, prima di poter accedere di fatto all’America.

E poi, forse non più affamato, si ritrova comunque povero e costretto a osservare, ancora una volta, anche in questo Nuovo Mondo, i benestanti dal basso in alto. Sembra non restare, ai suoi occhi, che “La cattiva strada”: le parole ben calibrate di Sarasso sanno restituircela viva, dolorosa e avvincente.

Recensione di Damiano Verda

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Articolo protocollato da Damiano Verda

Genovese, classe 1985, ingegnere informatico, appassionato di scrittura. There’s four and twenty million doors on life’s endless corridor (ci sono milioni di porte lungo l’infinito corridoio della vita), cantavano gli Oasis. Convinto che anche giocare, leggere, scrivere possano essere un modo per tentare la scommessa di socchiudere qualcuna di quelle porte, su quel corridoio senza fine.

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