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“La paura del buio“: si intitola così il thriller di Alessandro Beriachetto che presentiamo oggi al Thriller Café.
Volete saperne di più? Iniziamo dalla trama.
Per tutta la vita il commissario Domenico Moretti, soprannominato Mec, è stato convinto di avere un dono: capire le persone. Eppure, non è stato in grado di comprendere la persona a cui teneva di più, sua figlia. Per questa ragione l’ha perduta e non vorrebbe nient’altro che lasciarsi andare alla deriva. Ma non può. Il Questore Ferreri lo manda sull’ennesima scena del delitto per un parere che solo un vecchio criminologo come lui può dargli. Due ragazzi sono stati uccisi, il primo in modo brutale e la seconda giustiziata con un colpo di pistola. Entrambi i cadaveri sono stati ritrovati dentro un’enorme tubazione idrica in un cantiere a nord della città. Mec capisce subito che non è un delitto che segue i moventi tradizionali: vendetta, denaro, gelosia. A dimostrarlo sono le lesioni sul corpo del ragazzo, su cui il medico legale identifica dei morsi fatti da qualcuno con i denti scheggiati e l’asportazione post mortem degli occhi. È un’indagine troppo complicata, lui non ha più l’età e soprattutto non ha più la testa, ma questa volta non è da solo. Lo affiancherà il vice ispettore Vincenzo D’Amato, molto più giovane di lui e ansioso di mostrare il suo valore. Di fronte all’ostinazione e all’entusiasmo del vice ispettore, Mec si ricorda che una volta era come lui, prima che la vita lo mettesse al tappeto. Capisce che può ancora essere utile a qualcosa e decide di dedicarsi anima e corpo all’indagine.
Marti è un’operatrice socio-sanitaria della clinica psichiatrica di Susa. Una sera, qualcosa scatta nella testa di una paziente in stato catatonico da vent’anni e inizia a parlare. Sembra quasi un miracolo, eppure non è un caso. Si è risvegliata quando in tv veniva trasmesso un notiziario sugli omicidi che stanno sconvolgendo il capoluogo piemontese. Marti intuisce che c’è un collegamento tra l’assassino e quella paziente, però nessuno le vuole credere. Così decide di indagare sul suo passato andando contro i pregiudizi della gente, poiché mossa da un solo e unico obbiettivo: salvare delle vite.
Questa in sintesi la storia narrata ne “La paura del buio”, ma per aiutare i lettori a farsi un’idea più precisa del libro riportiamo a seguire un estratto, e tre domande e risposte con l’autore.
Tre domande all’autore
Com’è nato questo libro?
Giorgio Faletti ha giocato un ruolo fondamentale. Non avrei mai scritto questo libro se alcuni anni fa non avessi terminato la rilettura del suo “Io uccido“. Appena finita l’ultima pagina, ancora sotto l’effetto di quel finale pazzesco, decisi che anche io avrei scritto un libro del genere. Mi ci sono voluti sette anni (fatti di studio, esercizi, rifiuti, molte mazzate e rare piccole soddisfazioni) e anche se il mio libro è molto inferiore al suo, sono comunque soddisfatto del risultato finale.
In ogni caso, la storia che volevo raccontare è quella di tre persone molto diverse tra loro che cercano un’occasione di riscatto personale, un’opportunità per risollevarsi e riprendere in mano la propria vita. Questo, tuttavia, gli costerà molto caro perché dovranno affrontare i loro traumi interiori, i propri dolori, le frustrazioni, ovvero tutto ciò che è rimasto irrisolto del loro passato e che hanno relegato nella parte più buia della loro mente. È da qui che è nato il concetto di “paura del buio” che per me è tutto quello che scegliamo di non affrontare perché ci spaventa o è troppo doloroso, perciò preferiamo rinchiuderlo in una zona oscura dentro di noi. Però, fortunatamente per i protagonisti, c’è il cattivo che, come ha detto un certo Donato Carrisi, è il motore della storia thriller. Sarà proprio l’obbiettivo comune di fermarlo a tutti i costi che unirà questi tre personaggi, così diversi tra loro, nonché a lottare anche per la propria vita.
Qual è la cosa che i lettori potrebbero apprezzare di più nel romanzo?
Durante le varie fasi di scrittura e riscrittura di questo libro, sono stato influenzato particolarmente da un libro e da un film, rispettivamente: “L’uomo delle castagne” e “Seven”.
De “L’uomo delle castagne” ho cercato di emulare il più possibile la scorrevolezza, la tensione e il fattore adrenalinico che pervade tutto il libro. In particolare, ho inserito alla fine di ogni capitolo un “cliffhanger”, cioè interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante di forte suspense. In tal modo il lettore è spinto sempre a proseguire la lettura e resta sul filo del rasoio.
Per quanto riguarda “Seven”, invece, ho cercato di ricreare nel libro le atmosfere cupe del film e il rapporto tra due dei tre protagonisti (Mec e Vince) l’ho realizzato prendendo come spunto il legame tra i personaggi di Morgan Freeman e Brad Pitt nella pellicola.
Quindi, posso dire che a chi è piaciuto “L’uomo delle castagne” e/o “Seven”, molto probabilmente piacerà anche il mio libro.
È presente all’interno del libro una miscela di generi oppure c’è solo il tema della caccia al “mostro”?
Il bello del thriller è anche il fatto che i temi che si possono prendere in considerazione sono di più che in altri generi letterari. Oltre a temi tragici, si possono inserire anche elementi romantici, comici, grotteschi, di critica sociale. Ecco, secondo me, una delle funzioni di questo genere è anche di tipo “sociale”, ovvero mostrare e far prendere coscienza dei problemi della nostra società. Nel libro sono presenti temi come: la criminalità organizzata, la prostituzione minorile, la tossicodipendenza, l’emarginazione di chi è affetto da disturbi mentale e la violenza domestica, ma c’è anche una sottotrama romantica che coinvolge uno dei protagonisti. Infine, il tema della “perdita” e del “lutto” è sicuramente tra quelli dominanti e caratterizzati di tutta la storia.
Estratto
I lampeggianti blu si riflettevano sulle carrozzerie delle auto parcheggiate nel controviale. Vince si grattò il mento, la barba corta gli punzecchiò le dita. Rosi continuava a dire che lo invecchiava di dieci anni, beh meglio così, se fosse sembrato un quarantenne non lo avrebbero trattato come un ragazzino.
Una colonna di macchine si era formata prima della rotonda, l’agente alla guida attaccò le sirene e il rumore assordante gli rimbombò nelle orecchie. Non lo sopportava, però non poteva arrivare sulla scena del crimine dopo Galimberti. Di tutti i magistrati rompipalle lui era il peggiore. Inoltre, era stato chiamato per un duplice omicidio, proprio un bel primo giorno come vice ispettore… Per fortuna di lì a poco si sarebbe occupato di altre cose. Non si era fatto trasferire da Biella per aver a che fare con casi del genere. Era solo questione di poche settimane e la sua richiesta di inserimento nella sezione criminalità organizzata sarebbe stata accolta. Ma fino a quel momento, doveva farsi andare bene quello che passava il convento.
Sfiorò con la mano il ciondolo di San Michele nascosto sotto il giubbotto. Quanti risultati aveva già portato a casa suo padre a ventinove anni: l’arresto dei membri del clan Bonfiglio, il maxi-blitz in quel deposito nel quartiere Brancaccio. Lui, invece? Che aveva combinato fino a quel momento? Si morse l’interno della guancia. Un bel cazzo di niente, ecco cosa aveva combinato.
L’agente girò il volante e svoltarono in via Monte Nero. Si passò una mano tra i capelli. Avrebbe cominciato a dimostrare qualcosa da lì, da quel momento. Avrebbe dimostrato a tutti di essere degno del cognome che aveva. Se lo sentiva dentro le ossa: era finalmente arrivata la sua occasione.
Alessandro Beriachetto
Alessandro Beriachetto nato a Pinerolo il 19 ottobre 1990. Lavora in uno studio di consulenza del lavoro, situato nel piccolo paesino in provincia di Cuneo dove abita. Gli piace la musica rock e metal, ma ciò che davvero fornisce un senso alla sua esistenza sono il volontariato in Croce Verde (dove è anche istruttore) e la scrittura.
Ha frequentato dei corsi alla scuola Holden di Torino, di cui uno tenuto da Lorenza Ghinelli autrice di thriller, ed è un allievo della scuola di scrittura di Rotte Narrative fondata da Livio Gambarini.
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