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Torna al Thriller Café il Doc. Roversi, protagonista dei romanzi di Franz Konig, coinvolto stavolta in un’avventura che si intreccia con la storia dell’arte medievale.
Come si intuisce dal titolo, “Il diario di Bertina, cuoca di Frate Filippo Lippi“, la vicenda affonda le radici nel 1400, secolo in cui visse Filippo Lippi, frate ed eccelso pittore le cui opere ancora oggi possiamo ammirare nei maggiori musei.
Il Doc, che abbiamo già incontrato in precedenza in “Sciolto come un cono gelato al sole” e “Padri nostri“, si ritrova catapultato a seicento anni fa dopo aver rinvenuto il diario della cuoca, Bertina, che narra della morte di un artista avvelenato dall’erba mandragora. Questo quando già era alle prese con il decesso di una ragazza morta per overdose di cocaina, benché non facesse uso di droghe.
Le due vicende finiranno per incrociarsi; riuscirà Roversi a venirne a capo anche stavolta?
Questa in breve la trama del libro, corredato da immagini; ma per farvelo scoprire meglio vi lasciamo a seguire qualche estratto.
Estratto 1
Roversi rimase solo nella camera violentemente illuminata da quattro neon al soffitto e dalla lampada scialitica sul letto d’acciaio. L’atmosfera era surreale, molto diversa da una sala operatoria. In sala fa caldo, pensava il Doc, qui è freddo come in un frigorifero. In sala dominano i colori del verde, qui del ferro lucido e delle piastrelle giallastre. In sala c’è sempre una musica di fondo e il chiacchiericcio del personale, qui il silenzio. Tombale. E l’odore… in sala si sente vago l’odore dei gas anestetici (anche se sarebbe vietatissimo), qui lisoformio. E il corpo.
Quel corpo steso a pancia in giù, con un lenzuoletto fra le gambe e il viso schiacciato su un telo bianco, pareva pronto a tuffarsi nel fiume Lete dall’alto del tavolo anatomico.
Ma il dorso, i glutei, le cosce erano viola, verde scuro o bluastri. Macchie ipostatiche, pensò, zone dove il sangue si accumula quando viene a mancare la spinta cardiaca e lentamente filtra fino a divenire visibile sotto la cute, infarcendo i tessuti e rendendoli duri. Ematomi, si sarebbe detto in ambulatorio, ma in realtà solo depositi di sangue fermo, in parte coagulato, inizio della decomposizione, della putrefazione. Roversi si vestì di verde, indossò i doppi guanti, coprì il telefono con un sacchetto trasparente lasciando libero solo l’obiettivo, si mise gli occhiali protettivi e coprì con i lenzuoli verdi della sala operatoria tutto il corpo, lasciando scoperto solo quel piccolo quadrato sul sacro e sul gluteo, dove doveva incidere il lembo. Poi proseguì come da programma: eliminò una zona circolare di cute sul sacro in modo da simulare il decubito, e iniziò a scolpire il lembo del grande gluteo seguendo il disegno preparatorio che aveva lasciato sulla cute col pennarello. Lavorare su cadavere aveva pregi e difetti. Sicuramente facilitava il lavoro la mancanza di sanguinamento, però quella stessa asciutta ferita alterava la visione anatomica rispetto al vivo e riduceva il senso dell’esperienza. Inoltre i tessuti impregnati di sangue coagulato erano più spessi e stopposi, e trovare le strade di dissezione era più difficile. Poi i vasi, arterie e vene, erano poco riconoscibili, non pulsando o sgocciolando sangue, diventavano corde fredde e rigide. Ogni tanto il Doc si fermava per scattare qualche immagine fotografica significativa. Il decorso dell’ arteria glutea inferiore è per sua natura tortuoso, uscendo dalla pelvi sotto al muscolo piriforme, ma anche la glutea superiore, che passa sopra al piriforme, dovrebbe essere riconosciuta, e non era facile su un corpo che da qualche giorno riposava in frigorifero. Altre fotografie delle due arterie, che però si vedevano molto meglio in un libro di anatomia, e poi ancora dissezione dei piani profondi, fino a visualizzare l’emergenza delle arterie dalle pelvi, cosa che in sala operatoria non avrebbe mai fatto. Altre fotografie. E infine il lembo muscolo-cutaneo libero, collegato al resto del cadavere solamente dal peduncolo vascolare che ruota su sé stesso e finisce per coprire perfettamente il decubito. Per ultima, la chiusura della zona donatrice per semplice scorrimento dei bordi. Finito il lavoro. Certamente più semplice che in sala operatoria, meno ansiogeno e più chiaro. Peraltro anche estremamente meno pericoloso dal punto di vista penale. Una querela per vilipendio di cadavere contro una denuncia per danni. Roversi raccolse i propri materiali, allontanò i lenzuoli che coprivano il cadavere e anche il piccolo fazzoletto verde fra le gambe e fotografò il lavoro finito in visione aerea, finalmente con le mani libere dai guanti.
In quel momento si accorse che in mezzo ai glutei della ragazza morta sporgeva qualcosa di bianchiccio, molliccio, translucido, orripilante. Coprì il sedere bluastro con il lenzuolo di Antonio e uscì tirandosi dietro la porta schifato e depresso. Poi corse in sala operatoria a depositare i ferri da dissezione e il materiale di tessuto, e scappò nello studio sotto la doccia bollente.




Estratto 2
– Sai Bertina… ieri sera, quando è giunta l’ora del sonno, io son salito al piano di sopra ove mi avean detto ch’erano i giacigli, e portavo con me una candela, ma attento a non dare fuoco alla paglia. E ti ho visto dormire, ch’eri delicata e morbida come Morfeo e languida come Giunone, con i capelli sciolti sul pagliericcio e la veste di lana risalita che mostrava le tue cosce, e il tuo respiro delicato sollevava il tuo petto, e ho avuto il desiderio di baciarti sulle labbra, che parean ciliegie d’estate. Ma non lo feci per timore di svegliarti. Cosa sarebbe successo se l’avessi fatto?
– Messere…non so… non mi è mai successo. Ma io ho sonno profondo e sogni vivaci, forse avrei pensato a un fauno dei boschi o al folletto della cucina, quello che mangia i biscotti cantucci nella notte. Ma per il vostro bene non ci proverei davvero, poiché forse sarei come un cane che dorme e a cui si pesta la coda, e non guarda se colui che passa è il padrone o un ladro, ma l’azzanna ancor prima di capire. Il dì che lo farete, avvertitemi prima e comunque fatelo gentilmente e senza troppe persone attorno, e poi allontanatevi prima che la mia mano vi afferri le palle e le stringa come noci secche. Perché succederebbe, anche contro la mia volontà, forse, se essa non è vicina al mio desiderio.
– Ma quale è il tuo desiderio Bertina?
– Voglio imparare quest’arte di cucina e voglio uscire per sempre dal monastero, e avere una locanda tutta mia e far da mangiare ai passanti e viver di questo. Ma non ditelo a nessuno messer Pesellino, ora io son novizia delle monache e di questo non posso parlare. E siccome non ho da vantare le gambe di Lucrezia e gli occhi azzurri di Spinetta e le tette di Speranza, vi chiedo di esser cortese con me e lasciarmi lavorare.
– Tu dici di non aver quelle cose di cui parli ma io non ci credo. Vedo anzi una fanciulla in fiore, forte e graziosa. E ti giuro che appena questa Babilonia si sarà calmata io farò una miniatura solo per te, ch’essa sarà grande come un medaglione e ti raffigurerà come Venere in un letto di fiori. E tu potrai appenderlo nella tua locanda che chiamerai la Locanda di Venere.
– No… mai! Che così sembra un bordello. Sarà la Locanda della Luna.
– Bene…Locanda della Luna di Venere.
– Lasciate stare le lune ora…messere… che la mia luna è in arrivo ed io divento nervosa in quei giorni… che devo far da mangiare senza toccare il latte che diventa burro e il vino che diventa aceto e il lievito che non fa crescere il pane e tutte quelle stupidaggini che la gente dice. Anzi… fate finta che io non l’abbia detto e non ditelo in giro e nessuno lo saprà, e voi mangerete lo stesso.
– Ah…Bertina…è questo allora!
E se ne andò come offeso. E mi dispiacque, perché la sua presenza mi rallegrava, le sue movenze mi confortavano e anco il suo profumo di cuoio e di essenze di dipintore mi davano piacere. Ma la pancia cominciava a darmi noia e dolori e dovetti andare alla camera di servizi per fasciarmi con le pezze. E mi feci un decotto di malva e finocchio e salice. Poi buttai i cappelli del prete nel brodo e li lasciai bollire fino ch’essi non vennero a galla, li sistemai nella zuppiera e portai in tavola, mentre il cielo cominciava a scurirsi e le novizie a vestirsi per il freddo della sera.
Mangiarono tutti con vigore e fecero tanti rutti, che il brodo di carne lo fa fare, e parlarono a lungo del dipinto, i pittori soddisfatti del lavoro e le muse divertite del teatro che avean fatto, e anche Pesellino, che non mi guardava più, applaudì al mio piatto. Poi io chiesi a Speranza, che era forte e gentile, di rassettare la cucina e me ne andai a sdraiarmi sul pagliericcio. E ora che la candela si è spenta chiudo anche te, libricino mio, e ne riparliamo domani o il giorno appresso, se la pancia me lo consentirà.
L’autore
Di Franz König non si sa molto; se volete conoscere i suoi romanzi, potete visitare il suo sito ufficiale.
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