
Sicilia. 1985.
Quando ancora riecheggiano le violenze e gli spari che hanno caratterizzato i famigerati Anni di Piombo, a Racalmuto muore Aurelio Arriva, noto giudice della zona.
In paese non si parla d’altro. L’uomo possedeva una pistola, l’arma è stata rinvenuta sul luogo del fatto, quindi tutto sembra far propendere per il suicidio, e di conseguenza le gli esiti delle indagini lasciano spazio a pochi dubbi. Le voci sono via via più insistenti: guai con la professione? Oppure forse la responsabilità va fatta risalire a Leonardo Sciascia, celebre scrittore locale, un tempo amico di Aurelio Arriva al punto da inserirlo in un suo libro?
A tutto questo Elena, la figlia del giudice, non ci sta, per lei l’idea che il padre si sia tolto la vita è inconcepibile, pertanto decide di recarsi proprio presso la residenza di Sciascia. All’illustre autore chiederà, dall’alto della profonda conoscenza che lo ha legato al genitore, di investigare, di fare luce, di capire cosa è accaduto veramente.
Le indagini di Sciascia si riveleranno un ginepraio irto di menzogne, maldicenze, depistaggi, traumi passati, presenti e futuri, tradimenti amorosi e rancori. E poi c’è l’invidia e la diffidenza della gente, perché lui è un personaggio affermato, ha ottenuto premi e riconoscimenti anche all’estero, è stato visto persino in compagnia di Claudia Cardinale. Ma per quale ragione, si chiedono i più, parla proprio della Sicilia?
Credo che nessuna regione italiana abbia una consistenza così liquida e palpabile come la Sicilia. E’ impossibile non farsi trascinare ed avvolgere dai suoi contrasti, dalla sua Storia, dal suo folklore, dal suo retaggio contadino, dal suo milieu territoriale, dall’enorme patrimonio culturale che nonostante quanto abbia attraversato nel corso dei secoli (e forse proprio grazie alla forza che ne ha tratto), ci ha donato.
“Un rebus per Leonardo Sciascia” è un romanzo davvero intrigante, pieno di riferimenti al pensiero e alla filosofia di eminenti figure letterarie e non, uomini di rara levatura e fautori di un’impronta indelebile nella nostra memoria. Oltre a Leonardo Sciascia, di cui scopriamo un’indole curiosa, posata e meditativa, troviamo Berlinguer, Guttuso, Consolo, Bufalino, Brancati e Pirandello solo per citarne alcuni. E su tutti Italo Calvino, anch’egli grande amico di Sciascia, del quale, nei giorni in cui si svolge il romanzo, ne vengono menzionate le ultime ore di vita, dal fatale ictus all’ultimo ricovero presso una struttura di Siena.
Il romanzo è anche una velata ma profonda riflessione sulla morte e sul significato della vita al cospetto di essa. Come la letteratura possa diventare una sorta di ponte, un mezzo quasi freudiano per dare un senso a eros e thanatos, l’istinto a vivere e la predisposizione all’autodistruzione. A tal proposito, da ricordare è la citazione che Sciascia fa di Jorge Luis Borges, il grande scrittore argentino, e del suo celeberrimo racconto La morte e la bussola.
L’autrice Silvana La Spina, siciliana d’adozione ma senza ombra di dubbio siciliana a tutti gli effetti, è eccellente a tessere la trama e a farvi confluire l’essenza e le contraddizioni di quegli anni. In particolare, riesce con dovizia a tratteggiare il fondamento della conoscenza instauratasi tra colleghi scrittori nati in una terra che, a lungo andare, vede le amicizie con sospetto. Amicizie che in qualche modo finiscono sempre per sfilacciarsi o interrompersi completamente. Ciò nonostante, rimane immutato il rispetto e la considerazione che solo vere, grandi personalità sanno darsi reciprocamente.
Un’ammirazione scevra da opinioni personali o schieramenti faziosi, bensì fatta di silenzio, di conforto, di premura e di riguardo, senza frasi ad effetto o tonitruanti. Perché come afferma lo stesso Sciascia: la miglior parola è quella che non si dice.
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