bill-pronziniThrillerCafe.it vi propone oggi la seconda e ultima parte di Possibilità, il racconto di Bill Pronzini il cui primo spezzone era stato pubblicato qualche tempo fa. Nominato “Grand Master 2008” e premiato con due Shamus Award, Pronzini è uno degli scrittori che più hanno contribuito alla diffusione del genere thriller.

*** Parte 2 ***

Il giorno successivo, abbastanza miracolosamente, fu esente da Telford fino alle sei. Ero fuori, sul davanti a innaffiare il prato, quando Aileen apparve per la sua uscita quotidiana. Roger aveva passato la sua mattina a correre e curiosare intorno al quartiere, e lei la sua serata a camminare, e curiosare. Si devono ammirare i loro metodi, il modo ben coordinato con cui coprono il territorio, marciando nei diversi momenti della giornata in direzioni diverse a occuparsi della gente, come una squadra commando.
Lei venne nella mia direzione con la sua andatura rapida e si fermò sul marciapiede a pochi metri da dove stavo. Se il marito somigliava a un Basset Hound, la razza di Aileen era il fox-terrier – piccolo e nervoso, tratti spigolosi e un naso lungo naso che sembrava sempre umido e lucido, perfetto per infilarsi in luoghi che non gli appartengono.
“Bene, Howard”, disse, “Non credo che hai sentito da Suzanne”.
“Invece sì. Ha chiamato ieri sera.”
“Davvero? E come sta sua sorella?”
“Migliora”.
“Quindi tornerà a a casa presto”.
“Forse no,” risposi.
Il lungo naso si arricciò. “Perché no, se non è necessaria a Duluth?”
“Può restare lì lo stesso”.
“Per quanto tempo?”
“Indefinito”.
“Che significa? Non tornerà più?”
“Indefinito non significa mai, Aileen”.
“Perché dovrebbe restare a Duluth?”
“Le piace il posto. Più di quanto le piaccia io, mi dispiace dirlo”.
“Stai cercando di dirmi che ti ha lasciato?”
“Non sto cercando di dirti niente”.
Un’altra arricciata. Si accigliò. “Non credo Suzanne lascerebbe casa sua e tutto ciò che possiede in un improvviso capriccio. Non è da lei.”
“Non ho detto che è stato improvviso.”
“Non ci credo lo stesso”.
“Non la conosci tanto quanto credi, e neanche me”.
“Nel tuo caso, è certo.”
Si voltò e si allontanò, mormorando: “Lo sapevo. Lo sapevo!” forte abbastanza per farmi sentire.

Finii d’innaffiare, poi sedetti sul portico per godermi la serata tranquilla. Non rimasi lì cinque minuti che l’altro Telford arrivò marciando. Assalto diretto, una tattica insolita per lui.
“In piedi fino a tardi di nuovo la notte scorsa, non è così, Bennett?” disse senza preambolo.
“Così è Bennett invece di Howard ora, vero?”
“Molto tardi. Parecchio dopo la mezzanotte.”
“Se ero in piedi io”, risposi, “anche tu e Aileen lo eravate. Proprio una coppia di nottambuli”.
“Che stavi facendo, scavando nel giardino delle rose così dannatamente tardi?”
Sollevai un sopracciglio. “Il binocolo non era abbastanza per voi? Ora sei diventato un tipo high tech e hai acquistato un visore a infrarossi per un migliore spionaggio notturno?”
“Non hai risposto alla mia domanda”.
“No, e non lo farò. Cosa faccio sulla mia proprietà di giorno o di notte non è affar tuo”.
Tossì rumorosamente, come un tosaerba a gas difettoso. “Non la farai franca, Bennett.”
“Farla franca?”
“Scopriremo tutto, in un modo o nell’altro. Andremo fino in fondo”.
“Sì” Sorrisi. “Mi piacciono i puzzle. Ottimi passatempi”.
“Puzzle”?
“Spulciare tra le tante possibilità, in cerca di pezzi che si combinano tra loro per formare la vera immagine. Molto stimolante, mentalmente”.
“Non so di che cosa stai parlando.”
“No”, dissi “naturalmente no”.

“Altre cose da dare via?”
Mattina. Il mio garage aperto. E la Telford Fox Terrier nuovamente lì.
“Giusto, Aileen” feci. “Proprio così”.
“Tutto di Suzanne, suppongo.”
“Puoi supporre quel che ti pare.”
“Liberarsi del tutto di lei. Poiché sostieni che non tornerà”.
“Non l’ho mai affermato”.
“Non credo che sia andata a Duluth. Scommetto che non ha neanche una sorella”.
“Una scommessa che perderesti. Ce l’aveva e ce l’ha”.
“Lo dici tu.”
“E che cosa dici tu, Aileen?”
Puntò un dito d’accusa contro di me. Io dico che non se n’è mai andata. Dico che le hai fatto qualcosa.”
“Tipo?”
“Una cosa indicibile. Non riuscirai a farla franca”.
“Roger ha detto la stessa cosa ieri sera.”
Misi l’ultimo dei sacchi di Teflon nel bagagliaio della macchina. Restava solo la borsa da bowling. Aileen sembrò notarlo per la prima volta. La sua naso si arricciò e allo stesso tempo i denti schioccarono.
“Quella borsa”, disse. “Cosa hai lì?”
“E’ un sacchetto da bowling. Quindi ci deve essere una palla da bowling dentro”.
“Hai detto a Roger che non avevi una palla”.
“Sì? Deve aver frainteso”.
Raccolsi la borsa dalle maniglie, sollevandola.
Aileen gemette e si fece indietro. “Questa macchia sul lato. Sembra… Bagnato”.
Le dissi: “Stai immaginando le cose,” e gettai la borsa all’interno del bagagliaio.
Un altro gemito, più forte.
“Ora che succede?”
“Non c’è stato tonfo quando l’hai messa giù. Ha…”
“Ha cosa?”
“Ha fatto splash!”
“La palle da bowling non fanno splash, Aileen”.
“So quello che ho sentito!” Ora indietreggiava, le mani tese come a scongiurare un attacco. Il suo volto aveva assunto il colore dei suoi vegetali. I suoi occhi sporgevano, letteralmente.
“Ora che potrei tenere in un sacchetto di bowling,” feci, “che potrebbe fare un simile suono?”
Disse qualcosa che suonava come “Gaahh!” e fuggì.

Il campanello suonò alle sette di sera. Due uomini in abiti d’affari erano sul portico esterno, uno scuro e grosso, l’altro attraente e rilassato. Quello bruno chiese, “il signor Howard Bennett?”
“Sì? Che cosa posso fare per voi?”
“Polizia”. Mostrarono distintivi in custodie di pelle. “Il mio nome è Pilofsky. Questo è il Detective Jenkins. Vorremmo fare due chiacchiere con lei, se non le spiace”.
“Per niente,” dissi, “anche se non posso immaginare il motivo.”
“Va bene se veniamo dentro?”
Li condussi in salotto. Jenkins disse: “Veniamo subito al punto, signor Bennett. Abbiamo avuto una denuncia di attività sospette che riguardano lei e sua moglie”.
“Ah,” feci. “Ora ho capito. I Telford. Avrei dovuto saperlo che vi avrebbero chiamato”.
“Perché?”
“Sono le persone per le quali è stata coniata la frase ‘vicini d’inferno’ è stato coniato. Impiccioni e spioni della peggior specie, e melodrammatici fino alla punta dei pieid. Sono stato insopportabili fin da quando Suzanne è stato chiamata fuori inaspettatamente, alcuni giorni fa.”
“Dove è sua moglie, signor Bennett?” chiese Pilofsky.
“In visita a sua sorella a letto a Duluth. L’ho detto ai Telford più di una volta.”
“Tornerà?”
“Certo. Non appena le condizioni della sorella miglioreranno.”
“La signora Telford afferma che lei ha detto che sua moglie la stava lasciando e sarebbe rimasta a Duluth in modo permanente”.
“Allora mi ha frainteso. Così entrambi hanno persistito nel fraintendere una serie di incidenti perfettamente innocenti”.
“Supponiamo che ci darà la sua versione di questi incidenti”.
Li trattenni a lungo. Jenkins prese appunti.
Pilofsky disse, “Non ha affrontato la questione della borsa da bowling ‘umida e che faceva splash'”.
“Oh, quella. Aileen Telford ha una immaginazione iperattiva – lei è una scrittrice, sapete. La borsa non era bagnata. Era semplicemente macchiata. E non c’era niente, tranne che una vecchia palla da bowling. Ha sentito quello che voleva sentire quando l’ho posata”.
“Dove sono la borsa e la palla ora?”
“Li ho dati a una raccolta di beneficenza” mentii. In realtà avevo posto la borsa in un capannone industriale non lontano dal mio ufficio, quando nessuno mi vedeva.
Assentirono entrambi e Jenkins prese un altro appunto.
“Così vedete” dissi, “è solo una tempesta in una teiera.”
“Così sembrerebbe” commentò Pilofsky.
“Va bene se diamo uno sguardo intorno?” chiese Jenkins. “”E’ suo diritto di dire di no, naturalmente. Non abbiamo un mandato di perquisizione”. TL’implicazione, chiara, era che avrebbero potuto procurarsene uno se ritenuto necessario.
“Più che bene” dissi. “Siete miei ospiti. Non ho niente da nascondere”.
Li guidaii attraverso la casa, da cima a fondo. Furono educati e rispettosi, ma piuttosto approfondito nella loro ispezione. Mostrarono particolare interesse per la mia officina dipinta di recente e il resto del seminterrato, esaminando i miei strumenti e cercando anche all’interno del grande congelatore Amana. Naturalmente non trovarono nulla di incriminante. Non vi era nulla da trovare.
Dalla cantina li condussi fuori, dove ritrovai l’orribile scultura in ceramica di un uccello che avevo sepolto nel giardino delle rose. “L’ho fatto per un capriccio” dissi. “Ho odiato da sempre quella scultura, e con Suzanne via… Bene, non potevo resistere a guardarla più a lungo”.
“Perché nasconderla?” chiese Pilofsky. “Perché non gettarla nell’immondizia?”
Risposi cospiratorio: “Per essere onesti, mi sono parato il sedere. Ho pensato che se Suzanne avesse notato la scultura mancante e fosse rimasta sconvolta, avrei potuto sempre riesumarla e far finta che era da un’altra parte.” Sospirai. “Ora che l’ho tirata fuori, suppongo potrei anche metterla di nuovo al suo posto. E’ stata un’idea sciocca”.
Prima di andarsene, Jenkins mi domandò nome, indirizzo e numero di telefono della sorella di Suzanne a Duluth. Fornii le informazioni, dicendo: “Per piacere, non chiamatela lì a meno che non sia assolutamente necessario. Sono sicuro che capirete”.
“Ne abbiamo bisogno solo per il rapporto, signor Bennett.”
“Allora siete soddisfatti che questo è stato tutto un malinteso?”
“Per non parlare della perdita di tempo e denaro dei contribuenti”.
Suppongo che è troppo sperare che lo saranno anche i Telfords”.
“Se lo siamo noi”, fece Pilofsky significativamente, “meglio che lo siano anche loro”.
Nessun membro della coppia di segugi mi infastidì il giorno successivo o la mattina del seguente. Vidi capelli nascondersi, in realtà. Ma significava solo che avevano cambiato la loro tattica da palese a occulta. Non sarebbero soddisfatti, non importava quello che la polizia gli aveva detto, fino a quando non avessero visto Suzanne, in forma e cordiale, con i loro occhi.
E’ il motivo per cui, il mattino successivo, uscii fischiettando.

Il volo delle 15 da Duluth era in orario. Suzanne stava aspettando con la sua grande borsa quando giunsi al parapetto degli Arrivi. Guardava imbronciata l’orologio anche se non ero in ritardo nemmeno di un minuto.
Mentre uscivamo dissi: ”E’ bello riaverti a casa, cara”.
“Accidenti!” disse lei. La sua esclamazione favorita, che io ho sempre detestato. ”Probabilmente speravi che io restassi via molto più a lungo”.
”Mi dispiace sentirlo” dissi.
”Accidenti. Non cercare di negare che ti è piaciuto vivere da solo. Del tutto libero di mettere il naso in un libro scordandoti dei tuoi lavori domestici”.
”Non ho mai dimenticato i miei lavori domestici”.
”No, quando ci sono io a incitarti a farli. Non credo che tu abbia fatto tutte le cose della lista che ti ho dato”.
”Ah, ma le ho fatte”.
”Finito di costruire la nuova tavola per la camera dove faccio i miei lavori di cucito?”
”In una serata”.
”Portato ogni cosa che era sulla mia lista di oggetti da dare in beneficenza?”
”Sì, cara. Più alcune cianfrusaglie dalla cantina”.
”Verniciato quel tuo brutto laboratorio?”
“Tutti e quattro i muri”.
”Pulita la dispensa e il freezer?”
”E il frigorifero. Ho anche fatto una cosa buona. C’era un melone mieloso nascosto sul fondo che avevamo comprato settimane fa e poi dimenticato”.
”Doveva essere marcio”.
”Lo era” dissi. ”Come marmellata, in effetti”.
”Mmm” fece ”hai fatto qualche altra cosa oltre oziare?”
”Oh, mi sono divertito con i Telfords”.
”Divertito? Con quella gente indaffarata?”
”Abbiamo fatto un gioco”.
”Che genere di gioco?”
”Invero uno inventato da loro. Io non ci avrei mai pensato. Ma ho imparato le regole rapidamente e ne ho persino inventato uno io stesso”.
”Mmm. Chi ha vinto?”
”Io”.
”Buon per te” disse, e lasciò cadere l’argomento. Non ha mai avuto interesse per i miei piccoli trionfi.

Quando arrivammo a casa feci in modo di parcheggiare proprio in mezzo al viale d’accesso e aiutai Suzanne a uscire dalla macchina. I Telfords erano seduti nella loro veranda. Entrambi si chinarono quando la videro, allungando il collo come una coppia di goffe e agitate oche. Li salutai allegramente: entrarono piegati senza nemmeno ricambiare il saluto.
Dopo avere lavato i piatti della cena, mi sedetti sulla veranda per guardare l’oscurità scendere sul vicinato.
La sera era calda e quando si fa scuro è il momento del giorno che preferisco per la sua quiete e pace. Le luci apparvero nella casa dei Telford ma non c’era traccia né di Roger né di Aileen. Per la prima volta da quando io potessi ricordare le tende erano tirate e nessuna di esse ondeggiava agli angoli. Sarebbe passato molto tempo, pensai, prima che riprendessero a spiare nella casa dei Bennet. Dopo anni di insulti una pace duratura e il rispetto della privacy era una prospettiva assai piacevole.
La porta sbatté poco dopo e Suzanne uscì e si lasciò cadere accanto a me. ”Perché stai sogghignando?” chiese.
”Stavo sogghignando? Non me ne sono accorto”.
”A cosa stai pensando?”
”A tante cose, Possibilità”.
”Non ti capisco, Howard. Talvolta mi chiedo come ho potuto sposarti”.
Prima che potessi abbozzare una risposta, George, il meticcio Rottweiler dei Lindemans, arrivò trotterellando dall’angolo della casa. Suzanne emise un piccolo grido che fece fermare il cane, che abbassò leggermente le orecchie all’indietro.
”Howard!”
”Non ti preoccupare” dissi. ”E’ innocuo”.
”Innocuo? Un bruto orrendo come quello? Come è entrato nel nostro giardino?
”C’è un asse sconnessa nella palizzata sul retro”.
”Asse sconnesso? Perché non l’hai riparata? Cosa ti succede? Una simile bestia che corre libera. E’ inimmaginabile quanti danni può fare. Liberati subito di lui! Subito!”
Mi alzai e scesi i gradini della veranda. La coda di George cominciò ad agitarsi, si avvicinò e mi leccò la mano.
”E non tornare finché non avrai riparato quell’asse. Mi hai sentito?”
”Sì, cara. Non c’è bisogno che urli”
”Accidenti” disse. Rientrò sbattendo la porta dietro di lei.
Io dissi: ”Vieni, George” e portai il cane nel retro del giardino. Non voleva andare via. Mi guardava con i suoi occhi tondi arrabbiati e la lingua tremante. Mi chinai e gli diedi un colpetto sulla testa.
”Non ho niente per te questa sera, ragazzo” gli confidai. ”Ma potrei avere qualcosa in un prossimo futuro. Non si sa mai. La vita è piena di possibilità”
Poi lo condussi fuori e andai a prendere i miei attrezzi per fare finta di aggiustare l’asse sconnessa della palizzata.

***

Racconto pubblicato su Strand Magazine. Traduzione di Giuseppe Pastore, con il contributo finale di Francesca Panzacchi.

Articolo protocollato da Giuseppe Pastore

Da sempre lettore accanito, Giuseppe Pastore si diletta anche a scrivere e ha pubblicato alcuni racconti su antologie e riviste e ottenuto vittorie e piazzamenti in numerosi concorsi letterari. E' autore (assieme a S. Valbonesi) del saggio "In due si uccide meglio", dedicato ai serial killer in coppia. Dal 2008 gestisce il ThrillerCafé, il locale virtuale dedicato al thriller più noto del web.

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