Intervista ad Alberto GarliniAlberto Garlini ha recentemente pubblicato per Mondadori Il fratello unico. Un’indagine di Saul Lovisoni. Dopo aver recensito il romanzo, siamo riusciti a intervistarlo per i lettori di Thriller Café.

Classe 1969, originario di Parma, vive da diversi anni a Pordenone, dove è tra i curatori della manifestazione culturale Pordenonelegge.

[D]: Ciao Alberto, felici di averti qui al Thriller Café. Cominciamo subito con il tuo nuovo romanzo. Il fratello unico è il tuo primo giallo. In precedenza avevi pubblicato una raccolta di poesie, Le cose che dico adesso (Nuovadimensione, 2001), e diversi romanzi impegnati, tra i più recenti La legge dell’odio (Einaudi Stile Libero, 2012) e Piani di vita (Marsilio, 2015). Che cosa ti ha portato al giallo?
[R]: Fin da bambino sono stato un appassionato lettore di gialli, cresciuto divorando Ellery Queen e Nero Wolfe. Mi piaceva il gioco d’intelligenza che si creava col lettore, la possibilità di essere messo nelle stesse condizione del detective e quindi di poter giungere prima di lui alla soluzione. Era bello, e anche confortante, per un bambino, credere che la forza del ragionamento logico del detective potesse risolvere anche casi che toccavano il torbido dell’animo umano. Penso che il successo mondiale di Sherlock Holmes derivi proprio da questo: Holmes riesce a ridurre alla ragione anche le paure più profonde. In seguito, crescendo, ho conosciuto anche le altre forme del giallo, per esempio il noir, dove la soluzione è sempre più grigia e si porta a casa di meno. Ma il mio amore è sempre rimasto per il giallo classico anglosassone, con una deviazione sostanziosa in Francia, con Simenon e Maigret. Il problema per molto tempo, è che non mi sono mai reputato capace di scriverne uno, e molto umilmente sei anni fa ho cominciato a provarci. Ne ho buttati via tre, e questo è il primo che mi sembra di meritare di essere pubblicato. È proprio il giallo che volevo scrivere, e mi sono divertito tantissimo. Avevo bisogno di tornare anche mentalmente a quella prima fascinazione per la lettura, a quel puro divertimento. Avevo bisogno di recuperarlo.

[D]: Che differenza c’è tra scrivere un giallo e un romanzo come Piani di vita?
[R]: In realtà non molta, anzi Il fratello unico in un certo senso è figlio di Piani di vita, perché in quest’ultimo mettevo in scena tre personaggi che, come in una commedia degli equivoci, non si capivano mai perché erano completamente presi dal solipsismo della storia individuale che si raccontavano. Ognuno di noi è una storia, ognuno di noi ha senso perché si racconta una storia personale, però queste storie devono essere costantemente patteggiate con le storie degli altri. Oggi mi pare che questa arte del raccontarsi si sia un po’ persa, i social network ti spingono a trovare l’identico a sé, se qualcuno non ti piace lo banni, e la politica è diventata non arte della composizione ma arte della contrapposizione. È uno scenario molto pericoloso. E il mio detective Saul, che ha un talento particolare per capire e decrittare la storia segreta che ognuno di noi si racconta, cerca, risolvendo i casi, di risolvere anche questa empasse epocale.

[D]: Ho già sottolineato, nella recensione al tuo libro, come Il fratello unico, oltre ad essere un buon giallo ispirato ai capolavori classici del genere, sia un vero e proprio studio dei meccanismi che sono alla base del genere stesso. Tu stesso hai dichiarato che l’indagine viene risolta “per forma narrativa”. Cosa intendi con questa affermazione?
[R]:  Come ho accennato nella precedente risposta, il mio detective Saul Lovisoni risolve i casi comprendendo le storie che ognuno di noi si racconta. Ma queste storie non sono libere. Io credo che l’arte di raccontare storie sia un bisogno antropologico dell’uomo. Noi, in quanto esseri umani, siamo animali che raccontano storie. Le storie, da quando l’uomo esiste, sono scritte secondo certe regole o secondo certi canovacci. Ciascuno di noi si può raccontare una storia personale di riscatto, o di vendetta, o di realizzazione, o di fallimento, o d’amore. Se una persona inserisce se stesso in uno di questi casi, o nei tanti altri casi possibili, rispetterà anche le regole di genere. Si comporterà come un personaggio nella sua storia individuale. Siamo immersi nelle storie dalla mattina alla sera. Questa immersione non è innocua. Ci influenza anche nei comportamenti quotidiani. Nelle scelte politiche (scegliamo lo storytelling che ci è più vicino), nell’acquisto di beni di consumo (che rispettano una immagine di noi). Saul capisce queste storie individuali, e le inserisce nel contesto dei meccanismi narrativi che la storia umana ci ha consegnato. È geniale, e molto divertente.

[D]: “La fiction funziona nello stesso modo da cinquemila anni. Questo modo è stato codificato da Aristotele nella Poetica. I film hollywoodiani di oggi sono costruiti come l’Iliade o l’Odissea… La realtà segue spesso i medesimi meccanismi narrativi…”. È questo, almeno secondo me, uno dei passi più significativi de Il fratello unico e dell’idea che ne è alla base. Nel 2015, insieme a Caterina Bonvicini, hai pubblicato L’arte di raccontare. Ci parli di questa esperienza e di quanto ti abbia influenzato nella stesura del tuo ultimo romanzo.
[R]: Lo ha influenzato molto relativamente. In realtà insegno scrittura creativa da almeno vent’anni. E quindi uno dei campi dell’esperienza umana che ho maggiormente approfondito è proprio quello delle strutture narrative.  O in altri termini di come si scrive un buon romanzo. Sono quindi temi che studio da tantissimo tempo, in un certo senso da quando sono nato. Perché anch’io come Saul, se ho un senso sviluppato, è proprio quello del riconoscere le storie.

[D]: La trama de Il fratello unico è incentrata su un dramma famigliare. Negli ultimi anni, sta avendo molto successo quello che è stato definito il DOMESTIC NOIR, in cui viene denunciato quanto sia facile nascondere la psicopatia dietro un’apparenza di quotidiana normalità, soprattutto all’interno della famiglia. È recentissimo il dramma dei due bambini uccisi a martellate dal padre a Trento. Il tuo è un giallo e non un noir, ma mi pare evidente che il pubblico apprezzi questo nuovo indirizzo. Vedi best-seller come La ragazza del treno di Paula Hawkins, L’amore bugiardo e Nei luoghi oscuri di Gillian Flynne, e il recente e bellissimo L’apparenza delle cose di Elisabeth Brundage. Cosa ne pensi?
[R]: Credo che questo sia un tema importante. La famiglia in questo momento è un luogo vicino di patteggiamento delle storie. Tu puoi raccontare anche la più bella storia di te, e trovi sicuramente su Fb decine di persone che ci credono, ma molto difficilmente puoi ingannare la tua famiglia. È quindi un principio di realtà molto forte, che genera molto facilmente lo scontro. Anche perché spesso è proprio nella famiglia che le narrazioni individuali si incrostano, il bambino per la madre resta sempre il bambino, per esempio, anche quando cresce; queste incrostazioni a volte possono costringere  a gesti plateali perché i cambiamenti vengano accettati. La famiglia è quindi un luogo dove, molto più del social network, le tensioni vengono a evidenza, e se c’è tensione e conflitto c’è romanzo.

[D]: In una tua intervista, di qualche anno fa, hai dichiarato che non bisogna “pensare che la scrittura è un talento che scende dal cielo. La scrittura deriva dalla lettura, bisogna leggere tanto, in modo critico”. So che tieni anche corsi di scrittura. Domanda difficile: è sufficiente studiare e applicarsi per diventare un buon scrittore? Non è necessaria anche una piccola scintilla di talento?
[R]: Studiando e applicandosi si possono scrivere dei discreti romanzi. È chiaro che poi non basta fare allenamento per vincere la medaglia d’oro dei cento metri alle olimpiadi. Serve anche un talento di base. Ma le due cose spesso vanno insieme. Uno si applica perché ha talento e vede dei risultati. Uno smette di applicarsi perché lo sforzo è tale e i risultati così labili che non ne vale la pena. Detto questo il talento poi non è sufficiente, serve una vita, una voce. Serve anche fortuna. Insomma ci sono in gioco diverse variabili. Per cui dico sempre che se uno decide di scrivere lo deve fare per sé per divertirsi, perché si trova bene in quel gesto.

[D]: Il mercato del libro è sempre più in crisi. Nel 2014 sembrava addirittura che ci sarebbe stata una detrazione fiscale per incentivare l’acquisto dei libri. Io abito a Venezia e le piccole librerie (alcune storiche), nel giro di un decennio, sono scomparse quasi tutte. Quale sarà il futuro dei libri? Li acquisteremo solo su Amazon? Diventeranno tutti digitali?
[R]: E’ molto probabile. Come è probabile che il romanzo, vista la fruizione rapidissima delle informazioni che avviene oggi, diventerà troppo lungo e complicato. Credo però che serva, in tutta questa marea di informazioni che ogni giorno ci travolge, una cornice di senso. E questa cornice è sempre fatta di storie. Ecco, questa sete di storie non si esaurirà mai.

[D]: Questa crisi del libro è dovuta a molti fattori. Uno di questi, secondo me, è anche la qualità scadente di molti dei libri che vengono pubblicati. Mi capita sempre più spesso di spendere 15-20 euro di un romanzo e di lasciarlo prima di essere arrivato a metà. Questo non aiuta di certo la vendita. Cosa ne pensi?
[R]: Purtroppo è vero. E sarà temo sempre peggio con l’autopubblicazione e l’autopromozione. Molti libri sembrano essere pubblicati per occupare scaffali nelle librerie. Altri per sostenere l’ego dello scrittore. Ma insomma, alla fine saltano fuori cose buone anche da libri che sono stati pubblicati al solo scopo di occupare gli scaffali, o dai libri autopromossi e autopubblicati. Il problema in generale, più che gli scrittori, riguarda i lettori. Ci deve essere una comunità di lettori che si riconosca nel valore della lettura, e che eserciti un suo peso specifico anche a livello di mercato.

[D]: Alla fine de Il fratello unico, lasci in sospeso i lettori sulla sorte di Esther, la donna amata da Lovisoni, scomparsa misteriosamente nel fiume. Ci sarà un seguito? Oppure stai lavorando a qualche altro progetto?
[R]: La storia di Esther è una storia che lascio in un certo senso in sospeso. Ma non dico nulla di più su questo. Posso invece dire che l’idea di Saul e della sua assistente Margherita mi è venuta in mente durante un viaggio in macchina tra Pordenone e Parma, e in tre soggetti. Cioè ho immaginato il detective e l’ho calato subito in tre storie. Poi ho deciso di scrivere “Il Fratello unico”, ma ne ho altre…

Ringraziamo Alberto Garlini per essere stato con noi al Thriller Café, e speriamo di incontrarlo ancora molte volte in futuro.

Articolo protocollato da Alessandro Bullo

Alessandro Bullo è nato a Venezia. Si è laureato in lettere con indirizzo artistico, mantenendosi con mestieri occasionali; dopo la laurea ha lavorato per alcuni anni presso i Beni Culturali e poi per la Questura di Venezia. Successivamente ha vissuto per quasi dieci anni a Desenzano del Garda per necessità di lavoro. Attualmente vive a Venezia e lavora come responsabile informatico per un’importante ditta italiana. Sue passioni: Venezia, il cinema noir, leggere, scrivere. Autori preferiti: Dino Buzzati, Charles Bukovski, Henry Miller. Registi preferiti: Elia Kazan e Alfred Joseph Hitchcock. È arrivato per due volte in finale al premio Tedeschi e una al premio Urania. Nel 2012 con “La laguna degli specchi” (pubblicato sotto lo pseudonimo Drosan Lulob) è stato tra i vincitori del concorso “Io scrittore”.

Alessandro Bullo ha scritto 66 articoli: