Al Thriller Café ospitiamo oggi Jennifer Pashley, autrice de Il caravan (Carbonio 2020, traduzione di Anna Mioni), che abbiamo recensito qualche giorno fa.

Un’intervista, questa di Marina Belli, che davvero non dovete perdervi.

1) Benvenuta al Thriller Café. Prima domanda: chi è Jennifer come persona e come scrittrice?

Penso che la persona e la scrittrice coincidano! Faccio attenzione a tutto. Sto sempre a osservare e ad ascoltare. Mi piacciono le persone, e mi piace stare all’aperto, quindi sono sempre alla ricerca della bellezza in momenti mondani: la gente per strada, il modo in cui il vento fruscia tra gli alberi. Il traffico. Rumori come la pioggia o un treno che passa in lontananza.

2) Il caravan racconta situazioni spesso drammatiche, violente, o comunque molto dure, eppure lei ha scelto una scrittura molto ricercata, poetica, che crea nel lettore un senso di spiazzamento: ci si sente quasi sopraffatti dalla bellezza, dalla sua forza rivoluzionaria. Cos’è per lei la bellezza?

La bellezza è luce, e accostamento audace. Acqua fredda che scorre sulle ossa. Un croco che sboccia dal terreno marcio in primavera. Credo che la bellezza vada cercata. È in dettagli che spesso non vengono notati. Quindi quando scrivo, cerco di concentrare l’attenzione su quei dettagli.

3) Viviamo in tempi nei quali il linguaggio è diventato brutale e povero, e a tutti i livelli – dai social media alla politica – sono stati sdoganati messaggi di odio che si consumano in un tweet. Il suo romanzo è in controtendenza, è accurato, richiede tempi lenti di lettura per apprezzarlo veramente. Quanto è importante oggi scrivere (bei) romanzi?

Credo che scrivere bene richieda attenzione, e che la scrittura migliore è quella che coinvolge il lettore con l’empatia. È per questo che è così importante. È la via d’accesso ad altre esperienze, ad altre mentalità, ad altre emozioni. Un buon romanzo dovrebbe farti provare qualcosa verso i personaggi. Un grande romanzo può farti provare qualcosa verso il mondo.

4) Spesso il thriller è un romanzo “al maschile”: le donne sono spesso meri corpi assassinati necessari a raccontare un’indagine, l’omicida è quasi sempre uomo. Lei invece ribalta gli stereotipi di genere e del genere: non solo un racconto quasi tutto al femminile, ma anche la sua serial killer è una donna, il che è davvero raro. Vuole dirci qualcosa di più a proposito di questa scelta?

Credo che l’arte – sia la scrittura che il cinema – abbia sottovalutato la rabbia delle donne e la loro attitudine alla violenza. Le donne, nell’arte come nella vita reale, sono spesso rappresentate in termini drasticamente binari: quelle buone sono monolitiche – docili, oneste, gentili, fedeli. E lo stesso vale per quelle cattive – bugiarde e traditrici, sono donne considerate facili o egoiste. Mi piace mescolare questi elementi in una storia, perché è così che le persone sono realmente. Molte persone sono una mescolanza di queste caratteristiche. È questo ciò che ci rende pienamente umani, la complicazione.

5) Il caravan è anche un romanzo on the road. Noi lettori italiani siamo affascinati dagli Stati Uniti, dagli spazi immensi attraversati dalle highway, forse perché viviamo in una nazione piccola e popolosa, dove possiamo letteralmente camminare su migliaia di anni di Storia: può raccontarci cos’è il viaggio per voi americani? Perché è così importante? È ancora vivo il mito della frontiera?

Credo che il concetto di “destino manifesto” non abbia mai abbandonato gli americani – di solito a spese altrui. È un’ideale specificamente americano quello di spostarsi a Ovest e conquistare, di esplorare la strada aperta, di trasferirsi in una città nuova, andare verso una nuova vita. In questo senso, la frontiera non ha mai davvero smesso di far parte della mitologia americana.  In parte è anche un impulso stimolato dalla pubblicità, dalla cultura popolare, l’idea americana di un’auto nuova, grande e scintillante, così come l’invenzione delle interstatali, l’espansione delle città verso i sobborghi. L’America sta ancora crescendo costantemente.

6) Kakhi e Rayelle: il loro è più un viaggio “via da” o “verso” qualcosa?

Entrambe le cose. Ogni personaggio sta fuggendo dal proprio passato, ma inevitabilmente sono in movimento verso qualcosa di nuovo. Nel tempo di questo romanzo, passano molto tempo a muoversi gli uni verso gli altri, solo per essere respinti e rimbalzare verso una nuova direzione, verso qualcosa d’altro.

7) Nell’ultima scena iconica del film omonimo, Thelma e Louise lanciano la loro auto verso il burrone: eppure tutti noi ricordiamo quel momento tragico come un momento di resurrezione, di libertà assoluta. È, in qualche modo, ciò che cerca anche Kakhi? Una resurrezione attraverso il sangue, attraverso la liberazione simbolica dal corpo?

Sì. Per Kakhi la morte è assolutamente una liberazione attraverso la violenza. In qualche modo, è tutto quello che conosce – la violenza inflitta al suo corpo, la malattia inflitta a sua madre. L’unica via di fuga per sua madre è stata la morte. Quindi questo è in qualche modo un dono che Kakhi fa agli altri.

8) Nel suo romanzo si parla spesso esplicitamente e in modo complesso di sesso. Cosa rappresenta per lei e che peso ha nel romanzo? E qual è il ruolo dell’amore?

Nel romanzo, il sesso è spesso una ricerca di qualcosa che non c’è più, un pezzo mancante, un’altra parte di te stesso. È la ricerca di una connessione, ed è per questo che Rayelle, prima di incontrare Cooper, spesso fallisce in questi tentativi. Con Cooper c’è la sensazione che né lui né Rayelle siano completi, che non possano esserlo finché non si trovano.

Per Kakhi, che è stata vittima di violenza sessuale, il sesso che va cercando con altre donne è una sorta di trascendenza. Offre loro qualcosa che non hanno mai provato; in un certo senso è come se fosse la prima a vederle. Quel tipo di sesso offre un riconoscimento profondo, è importante per tutte le donne che lei alla fine uccide.

9) In alcune interviste ha citato Bruce Springsteen. Nel suo romanzo si trovano molti elementi della poetica e dell’epica springsteeniana: la disillusione del sogno americano, ma anche un desiderio di un altro posto, di un’altra vita. Se dovesse raccontare Il caravan con una canzone del Boss, quale sarebbe?

Mi è sempre piaciuta la strofa di Thunder Road in cui canta “The door is open but the ride ain’t free.” È esattamente quello che succede ne Il caravan: una porta aperta, un giro ad alto prezzo, un brivido che sarà anche pericoloso, ma che può essere la promessa di qualcosa di nuovo, qualcosa di meglio.

10) Sta lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, può anticiparci qualcosa?

Sì. È appena uscito il mio nuovo thriller, The Watcher, che parla di una detective che lavora sul caso di una donna scomparsa, nelle zone rurali dello Stato di New York. Attualmente sto lavorando sul prossimo romanzo con questa stressa detective.

11) C’è qualcosa che vorrebbe aggiungere?

Sono davvero entusiasta per l’accoglienza che Il caravan ha avuto in Italia, per il modo in cui l’hanno letto gli italiani, e per l’idea che si sono fatti dell’americanità espressa nel romanzo, della sua violenza e della sua redenzione. È come se i lettori italiani avessero notato qualcosa sull’America che gli americani non riescono a vedere, perché guardano troppo da vicino. Queste letture e recensioni del libro sono state immensamente soddisfacenti per me.

Grazie a Jennifer per essere stata qui con noi a Thriller Café.

Traduzione di Chiara Sironi

Foto ©Martirene Alcantara

Articolo protocollato da Marina Belli

Lettrice accanita, appassionata di rugby e musica, preferisco – salvo rare eccezioni – la compagnia degli animali a quella degli umani. Consumatrice di serie TV crime e Sci Fy, scrittrice fallita di romanzi rosa per eccesso di cinismo e omicidi. Cittadina per necessità, aspiro a una vita semplice in montagna o nelle Highland scozzesi (a condizione che ci sia una buona connessione).

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