Hard Candy, David Slade, USA 2005

Sinossi: Jeff è un fotografo trentenne, Hayley una ragazzina di quattordici anni ma molto, molto più sveglia di quanto la sua età potrebbe far credere. I due, dopo lunghe sessioni di chat in internet decidono di incontrarsi. Dopo un drink e una fetta di torta si recano a casa di Jeff, ma quella che doveva diventare una giornata allegra e piacevole si trasforma per il fotografo in un incubo senza fine…

Nella tipologia narrativa del breaking bad, in cui rientra a pieno titolo Hard Candy, il personaggio protagonista, presentato inizialmente come positivo, è soggetto a uno switch esistenziale che lo trasforma moralmente e narrativamente in qualcuno/qualcosa di radicalmente diverso, quasi sempre connotato negativamente, finendo per rivelarsi come il vero antagonista.

Tanto più, nelle prime fasi del film, il personaggio viene presentato come buono, equilibrato, ingenuo quanto più, non appena il conflitto narrativo verrà innescato, la sua trasformazione risulterà radicale, come succede nel film in qualche misura capostipite di questo filone, Eva contro Eva (1950), dove l’umile e graziosa Eva Harrington (Anne Baxter), ragazza di modesta condizione, piena d’entusiasmo per il teatro e per la vita, riesce ad avvicinare e a entrare nelle grazie di Margo Channing (Bette Davis), diva all’apice del suo successo, e nei modi più subdoli e meschini finisce per prenderne il posto e distruggerne la carriera, rivelando una natura a dir poco cinica e spietata.

In Un giorno di ordinaria follia (1993), invece, la parabola di trasformazione del mite impiegato in camicia bianca diventa una vera e propria trappola spettatoriale: tutta la nostra esistenza, come quella del protagonista del film, Bill Foster, è punteggiata in fondo da piccole, “ordinarie” follie che siamo costretti a subire in silenzio. E non è forse venuto il momento di dire basta, non abbiamo già sopportato abbastanza? Così, trascinati in una vertigine che Michael Balint definirebbe filobate, cominciamo a provare un forte piacere identificativo con questa sospensione delle regole, con questo carnevale della giustizia nel quale “uno di noi”, uno che nella vita ha sempre subito la forza degli altri, mette da parte le buone maniere e fa entrare in gioco un po’ di salutare follia. Nessuno di coloro che incontra sospetta che, dietro a un’apparenza mite da impiegato con gli occhiali, si celi uno psicopatico criminale che ormai ha superato il “punto di non ritorno”.

Ecco allora un primo aspetto identificativo di questo tipo di film che ci rivolge sempre un de te fabula narratur: ci siamo divertiti a identificarci nella rabbia fuori controllo di Foster, ma quando diventa “davvero cattivo”, quando uccide, quando pianifica il sequestro e l’omicidio della moglie e della figlia, siamo davvero disposti a seguirlo? Ci identifichiamo ancora con lui quando scopriamo chi è veramente?

Il caso di Hard Candy è insieme più estremo e più sfumato dei due film precedenti che però ci servono a incorniciarlo meglio e a comprendere il modo in cui la suspense agisce in questa particolare fattispecie narrativa. Il film rovescia la favola di Cappuccetto Rosso perché a subire è il lupo, mentre la potenziale vittima si palesa come il più feroce dei carnefici, incrociando e sovrapponendosi, anche alle narrazioni di revenge. Jeff è un trentenne affascinante, con un sorriso lucente e penetrante, che nella vita fa il fotografo e i cui soggetti preferiti sono le ragazze adolescenti. Hailey, se così davvero si chiama, è una quattordicenne all’acqua di rose interpretata da un’inquietante Ellen Page, che scopriremo appunto essere in realtà sin troppo scaltra e disinvolta. Nell’incipit cibernetico del film Hailey e Jeff flirtano in una chat decidendo di incontrarsi: la ragazza accetta addirittura di farsi ospitare a casa del fotografo dopo che all’appuntamento iniziale Jeff si è rivelato un bravo ragazzo dotato anche di un certo fascino.

A questo punto, già al decimo minuto del film, siamo assolutamente certi di quanto sta per accadere e vorremmo in qualche modo allertare l’ingenua adolescente che ha come unica colpa quella di essersi presa la classica cotta per l’adulto fascinoso: “Attenta Hayley! Non farti ingannare! Proprio perché Jeff ha la parvenza del bravo ragazzo qui gatta ci cova!”. L’andamento narrativo con l’inizio in medias res e l’immediato abboccamento ci fa dunque presagire che il film tratterà di un tentativo di violenza o di un imprigionamento, configurandosi essenzialmente come una riflessione (forse un po’ moralistica) sugli adescamenti in chat e sui rischi connessi all’utilizzo della rete da parte degli adolescenti. Jeff è con tutta probabilità un folle psicopatico che via via mostrerà la sua vera natura e il fuoco narrativo del film riguarderà i modi attraverso i quali Hailey – che progressivamente si accorgerà di essere caduta in una trappola – riuscirà a venire a capo della situazione.

Ma qui la sovversione dei ruoli è radicale. Quello che attende Jeff, dopo essere stato drogato, sarà una discesa vorticosa verso l’inferno, orchestrata in modo magistrale dal personaggio interpretato dalla Page, il cui volto innocente rappresenta in realtà un micidiale amo a cui era oggettivamente impossibile non abboccare. Hayley è convinta che Jeff sia un pedofilo impenitente ed è lì per compiere una vendetta (che era stata meticolosamente pianificata) a nome di tutte le ragazze di cui l’uomo avrebbe abusato. Dopo averlo legato e ridotto all’impotenza, la ragazzina cerca ovunque indizi e prove che possano inchiodarlo alle sue responsabilità decidendo infine di punirlo esemplarmente castrandolo. Ecco allora che la suspense tipica del Breaking Bad finisce per abbandonare lo spettatore in uno stato di completa confusione, morale e esistenziale. In effetti le argomentazioni inquisitorie di Hayley ci convincono sempre di meno: la ragazzina riesce a diventare talmente antipatica, supponente e presuntuosa che alla fine arriviamo addirittura a fare il tifo per il presunto pedofilo, di cui per certo sappiamo solamente che è un trentenne in carriera attratto dalle minorenni. Da che parte dobbiamo stare? Nonostante i presupposti iniziali fossero chiarissimi ora non sappiamo davvero a chi dovremmo concedere la nostra fiducia.

Tutti i cliché della ragazzina adescata dal pedofilo insospettabile sbiadiscono nelle visioni di un uomo che viene drogato, vilipeso e torturato, tanto che ogni cosa ci appare improvvisamente rovesciata. Lo spettatore perde i suoi punti di riferimento e non sa più a chi credere. D’altra parte, le narrazioni a cui siamo abituati, retaggio del cinema hollywoodiano e quindi in genere costruite su un’impostazione valoriale dove il bene alla fine deve trionfare sempre, prevedono l’identificazione con un personaggio positivo che ha il compito di condurre lo spettatore lungo il periglioso tragitto della storia, esortandolo a compiere il suo stesso percorso di catarsi e di emendazione. Ma, come ci ricorda Alfred Hitchcock, molte volte è la situazione a creare la suspense più che la simpatia verso il personaggio, per cui possiamo sorprenderci a trepidare per le sorti di qualcuno anche quando in pericolo è una persona moralmente riprovevole. Quello che risulta interessante di Hard Candy è proprio che, a differenza di tutte quelle fattispecie narrative in cui i confini del bene e del male sono perfettamente individuati, la suspense non è determinata tanto dalla dimensione morale del film (che appunto risulta piuttosto confusa e contraddittoria), quanto dalla specifica situazione in cui ciascun personaggio si può venire a trovare in ogni momento della storia, per cui la sospensione per simpatia non si innesca a partire da figure morali che rimangono fisse e invariate per tutta la durata del film, ma da posizioni intercambiabili e dinamiche, in cui ciascun personaggio può venire a trovarsi da un momento all’altro.

Dopo il turning point iniziale, lo spettatore alterna la sua simpatia ora per l’una ora per l’altro: insomma, la morale del film non ci viene servita su un piatto d’argento come di solito avviene, ma lo spettatore è costretto a guardare dentro se stesso e richiamare la propria personale coscienza al di là di ogni simpatia identificativa, mettendo in discussione cliché e luoghi comuni a cui pure il film ricorre in continuazione, rendendo ulteriormente problematico il nostro compito spettatoriale.

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Articolo protocollato da Piero Tomaselli

Nato in provincia di Udine. Laureato in filosofia a Padova con una tesi sul rapporto tra poesia e nichilismo nel pensiero di Heidegger. Vive a Roma, dove nel 2003 si diploma in regia e sceneggiatura a Cinecittà.Insegnante di storia e filosofia al Liceo Peano di Roma, collabora con diverse scuole di cinema come docente di “estetica, narratologia e linguaggio delle immagini”. Tra i suoi lavori il mockumentary situazionista Simone Lecca e il Cinema (dell’) In-Visibile (2004-2009) con Enrico Ghezzi, Carlo Lizzani, Moni Ovadia, Luigi Di Gianni, Gianmarco Tognazzi, Andrea Diprè e Giuliano Montaldo e il mediometraggio Lintver (2006) con la colonna sonora di Elisa. È tra gli autori di Imago Mortis, opera prima di Stefano Bessoni con Geraldine Chaplin.Nel 2009 scrive e dirige il film indipendente Velma, girato in due sole settimane con un budget molto ridotto, tra i film più premiati dell’anno. Nel 2010 è invece il co-autore del montaggio del documentario The Earth: our home, scritto da Vincenzo Cerami e musicato da Ennio Morricone, film di montaggio che vince il Globo D’Oro 2011.Nel 2013 fonda il Cervignano Film Festival, il cinema del limite e del confine, kermesse cinematografica di cui è stato direttore fino al 2016.Ha condotto diversi seminari e laboratori sulle strutture narrative del thriller e del cinema di detection e nel 2016 pubblica Suspense! Il cinema della possibilità (Orthotes Editrice), con un approccio a metà strada tra filosofia e narratologia, libro/saggio sulle forme della suspense contemporanea, scritto a due mani con il filosofo Damiano Cantone.

Piero Tomaselli ha scritto 10 articoli: