Inferno: il nuovo libro di Dan BrownAnnunciato con rivelazioni sparse tra Facebook, Twitter e sito ufficiale, finalmente recensiamo Inferno, nuovo libro di Dan Brown uscito in contemporanea mondiale il 14 maggio, data non certo scelta a caso, essendo 14/5/13 l’anagramma numerico del pi greco (3,1415), ovvero la costante che moltiplicata per il quadrato del raggio dà l’area di un cerchio (la parola Cerchio, associata all’Inferno di Dante vi dice niente?)
Qui in Italia, ovviamente, l’editore è Mondadori, con traduzione di Nicoletta Lamberti, Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli (che per lavorare al libro sono state chiuse in un bunker segreto assieme ad altri colleghi di altri paesi – qui la testimonianza video).
A distanza di tre anni e mezzo da Il simbolo perduto (ottobre 2009), quindi ritroviamo in libreria l’autore che – piaccia o no – ha scritto probabilmente le pagine più importanti della storia del thriller nell’ultimo decennio con il suo Il codice Da Vinci.
Come protagonista, anche stavolta Robert Langdon, il professore di Harvard al centro dei due precedenti libri già citati e di Angeli e Demoni, primo volume che lo vede in azione, uscito in Italia dopo il successo di The Da Vinci code.

Inferno è un romanzo in cima alle classifiche ancora prima di uscire: un successo mondiale annunciato o un obiettivo mancato? Scopritelo con noi…

Trama: il professor Robert Langdon si sveglia in un ospedale di Firenze con una ferita d’arma da fuoco alle testa e nessun ricordo di quanto accaduto, se non allucinazioni orribili che parlano di un pericolo incombente e che sembrano provenire direttamente dall’Inferno così come narrato da Dante Alighieri. Poco dopo il suo risveglio, un sicario cerca di ucciderlo, ma la dottoressa Sienna Brooks lo aiuterà a scappare, diventando sua compagna d’avventura. Langdon si accorgerà di portare con sé un microproiettore molto particolare, che riproduce il famose dipinto di Botticelli raffigurante la mappa dell’Inferno dantesco: il primo di una serie di indizi che li porteranno da Firenze a Venezia, fino a Istanbul, nel tentativo disperato di bloccare il piano criminale di uno scienziato convinto che la sola possibilità di sopravvivenza della specie umana, sia lo sterminio di almeno un terzo della popolazione mondiale.

Giudicando un romanzo di Dan Brown è necessario distinguere e tenere separati due aspetti fondamentali: l’intreccio della trama e la narrazione.
Se per il primo aspetto Brown ha sempre ottenuto, se non ammirazione, almeno un riscontro positivo quasi unanime, il secondo ha sempre fornito ai suoi critici molti spunti di discussione.
Nel Codice da Vinci, il suo più grande successo, l’eccezionalità della trama (per cura, intreccio, ritmo) era bilanciata da uno stile sobrio e misurato (criticato da alcuni per questa “povertà”, ma in fondo necessario per non rubare la scena alla storia, vera protagonista), in Inferno si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una caduta libera su entrambi i fronti. Una discesa all’inferno in tutti i sensi, per Brown, che i suoi detrattori useranno negli anni a venire per provare che, in fondo, loro lo avevano sempre sostenuto che non si trattasse di uno scrittore talentuoso.
Scorrendo le pagine di questo romanzo, si stenta a riconoscere le qualità che hanno sempre contraddistinto Brown: verosimiglianza, credibilità, stile misurato, ritmo serrato, chiarezza espositiva.

In Inferno la trama è azzardata e in alcuni passaggi rasenta l’assurdo. Le intuizioni di Langdon che lo traggono d’impiccio e aprono nuovi scenari per la sua caccia al tesoro sono spesso forzate e poco fluide; gli escamotage che lui e Sienna usano per fuggire hanno del ridicolo e abbassano notevolmente la qualità del romanzo. La trama sembra costruita apposta per dare a Robert Langdon la possibilità di raccontarci molte cose sui misteri e le peculiarità artistiche della Firenze rinascimentale, della Venezia dei dogi e del crocevia di culture che è Istanbul, l’antica Bisanzio, ma viene da pensare che prima di tutto Brown abbia pensato a quali attrattive descrivere e poi abbia provveduto a plasmare una storia che le ricomprendesse. Il risultato è un’impalcatura traballante, un collage di scorci pittoreschi dal passato affascinante tenuti assieme da eventi improbabili.
È solo dopo un centinaio di pagine che il nostro intrepido professore è libero di far sfoggio delle sue conoscenze e iniziare la caccia al tesoro che ha funzionato così bene per Il Codice Da Vinci. In “Inferno”, però, provoca un senso di déjà-vu che la rende meno spettacolare, anche se comunque interessante e ammirevole per la quantità di dettagli e nessi che la caratterizzano. Il ritmo è incalzante verso metà libro e finalmente si riconosce il miglior Brown, ma poi la fatica si fa sentire, le lunghe spiegazioni del professore iniziano ad annoiare e si avverte l’esigenza di qualche avvenimento più consistente, che sia storia pura e non spiegazione di qualche fatto storico o opera d’arte.
La mia fortuna è conoscere le bellezze artistiche di Firenze e Venezia, altrimenti avrei fatto molta fatica a seguire la rocambolesca fuga di Langdon. Dubito che chi non abbia visitato quei luoghi possa sopperire con l’immaginazione all’esperienza diretta, e questo significa perdersi gran parte del fascino di questo romanzo, che è comunque “interattivo” e si può apprezzare appieno solo se si dedica qualche momento alla ricerca (per la bellissima scena nel sottotetto di Palazzo Vecchio, è necessario sapere come sono fatte le capriate del Vasari e il suo soffitto sospeso per riuscire a visualizzarla). Questo però è un punto a favore di Brown, che sprona a documentarsi. Romanzo sconsigliato comunque al lettore pigro.
Un aspetto positivo dei romanzi di Brown è che c’è sempre qualcosa da imparare e quel qualcosa è in genere spiegato bene. Se questo basti a renderlo uno scritto di valore, la risposta sarà diversa per ogni lettore. Quando Brown parla di Dante, però, del potere innovativo e del profondo valore artistico della divina Commedia, si ha l’impressione di trovarsi davanti a un “copia e incolla” di informazioni attinte altrove, ma che non hanno davvero attecchito nell’autore: manca il trasporto e la passione di un vero estimatore, che invece era riscontrabile e fungeva da traino ne “Il codice Da Vinci”. Le descrizioni delle bellezze di Firenze, Venezia e Istanbul sono numerose e dettagliate, ma a volte offerte così generosamente al lettore da creare la fastidiosa sensazione di stare leggendo un opuscolo turistico.
Lo stile lascia a desiderare e spesso, come è tipico di Brown ma in questo caso esasperato, inciampa in concetti ripetuti più volte senza una reale necessità (“cerca trova” è un tormentone che perseguiterà il lettore per un terzo del libro), in informazioni sciorinate senza eleganza al solo scopo di spiegare come stanno le cose e nell’uso di un lessico poco ampio. Si pensi ai due personaggi femminili di Sienna e di Vayentha, che nella stessa scena, a due pagine di distanza, sono descritte entrambe come “atletiche”: uno scrittore di fama mondiale dovrebbe attingere a una maggiore ricchezza di termini per delineare due personaggi contrapposti. Non dubitando dell’accuratezza della traduzione, si può solo pensare alla ripetitività della prosa e a un lessico molto limitato.
È uno stile che non offre piacevoli sorprese e che procede su sentieri già battuti: le mani sono sempre affusolate, il dolore lancinante, lo sguardo gelido o freddo, il passo sempre deciso (due volte in due pagine consecutive, riferito a personaggi diversi); vie brevi e collaudate per dire cose già sentite.
Fastidiose, e in alcuni casi ripetute fin troppe volte, le citazioni di marchi famosi: Harris Tweed, Somerset, Ferrarelle, Broni (Brown ci ha ripetuto fino allo stremo che il completo di Langdon è di questo marchio e che è fantastico), Apple, Juicy Couture, Plume de Paris, Armani, Fiat, Volvo, Dubios, Goja… quasi che citare i marchi (spesso status symbol) sia la massima forma di caratterizzazione di un personaggio. È un gioco di prestigio che funziona e incanta una sola volta, e solo se fatto con discrezione. In questo caso sono maldestri tentativi di creare un’ambientazione verosimile, che nei risultati, però, appare più forzata che mai e a volte anche pretenziosa. O, forse, sono gli sponsor della trasposizione cinematografica dell’opera.
Cadute di stile si hanno in alcuni passaggi qualitativamente scadenti, come quando Langdon, braccato da sicari che gli sparano addosso, pensa che una volta a casa dovrà proprio acquistare dei mocassini italiani, tanto sono comodi per scappare. Improponibile, a meno che non si stia parlando di 007 in missione “consigli per gli acquisti”. O come quando un altro personaggio, drogato e in preda a forti attacchi di nausea e capogiri, alza gli occhi e nota che, fuori dall’auto, sotto la loggia di piazza della Signoria, un uomo indossa niente meno che occhiali Plume de Paris.
Se dovessi completare questo podio di fatti involontariamente comici, aggiungerei la scena in cui la dottoressa Sinskey, direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, armata di kit per sutura, compie un perfetto lavoro di taglio e cucito sulla giacca di Langdon per ricavarne una tasca supplementare e infilarci il micro proiettore (che proprio perché è micro non è riuscita a far stare nella tasca già pronta all’uso), tutto questo mentre lui è nella toilette del jet privato a fare pipì.
In almeno un paio di punti, ci sono delle incoerenze evidenti, come quando l’autore spende venti righe per delineare un buio fitto e completo e subito dopo la dottoressa Brooks, acquattata nell’ombra alle spalle dell’assassina, riconosce che la pistola che questa ha appena estratto dalla tasca è proprio quella che ha ucciso il suo collega qualche ora prima.
La spirale di fatti improbabili porta a un finale che suscita contrastanti sensazioni: sollievo, perché dopo 522 pagine si è arrivati alla conclusione; stupore, perché anche all’ultimo momento Brown è riuscito a infilare qualcosa di assurdo.
Infine, lascia con una domanda cruciale: perché mai uno scienziato determinato a sterminare la specie umana, fino a compiere egli stesso l’estremo sacrificio, avrebbe mai dovuto lasciare degli indizi perché qualcuno capisse il suo piano e lo sventasse? Come dicevo, una trama che non sta in piedi già dai suoi presupposti.

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Articolo protocollato da Ilaria Tuti



Ilaria Tuti ha scritto 7 articoli: